“DOV'ERI, BARBOSA?”, 70 ANNI FA IL “MARACANAZO”: LA TRAGEDIA SPORTIVA DEL BRASILE, BEFFATO AI MONDIALI DALL’URUGUAY. IL RESPONSABILE DEL DISASTRO DEL MARACANA’ FU CONSIDERATO IL PORTIERE VERDEORO CHE IN REALTA’ SUL TIRO DI GHIGGIA NON AVEVA SBAGLIATO - “LA MASSIMA CONDANNA PREVISTA DALLA LEGGE BRASILIANA È DI 30 ANNI”, DISSE PRIMA DI ANDARSENE, “MA LA PENA CHE STO SCONTANDO IO DURA DA 50” - QUANDO UNA SIGNORA LO RICONOBBE DENTRO A UN NEGOZIO DISSE AL FIGLIO: “LO VEDI QUEL SIGNORE? È LUI CHE FECE PIANGERE TUTTO IL BRASILE” - VIDEO

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Piero Trellini per “il Venerdì di Repubblica”

 

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Il colpo fatidico sarebbe partito alle 16.38. Avrebbe distrutto un Paese intero, come una bomba. E cambiato due vite. Quella di chi aveva sparato. E la sua. Per essere un portiere, Moacir Barbosa non era imponente. Era alto appena un metro e settantasei centimetri e pesava 75 chili.

 

Ma quando si avvicinavano alla sua porta, gli avversari lo vedevano enorme. L' istinto feroce gli aveva fatto guadagnare l' appellativo di «giaguaro». Entrava in lotta con l' attaccante, afferrava il pallone con una sola mano, la destra, lo portava al petto e, solo allora, lo conficcava tra le due braccia. Fuori dai pali, però, era un meraviglioso essere umano, che discorreva pacatamente e aveva la battuta pronta.

 

Alla vigilia della partita gli era stata assegnata una tessera vitalizia per il cinema Trianon sulla quale era stampato: "Para o campeão do mundo Moacir Barbosa". Quel giorno, a Rio de Janeiro, si chiudevano i primi campionati del mondo di calcio disputati dopo la guerra. Ai brasiliani rimaneva una sola partita. Quella contro l' Uruguay. Una finale per uno scherzo del destino.

 

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In realtà solo l' ultimo incontro del torneo, nel quale al Brasile, padrone di casa e dominatore assoluto, in virtù di un punto di vantaggio sulla Celeste, era sufficiente pareggiare per conquistare, per la prima volta e proprio sotto gli occhi del suo pubblico, la coppa Rimet.

 

Fino ad allora la seleção aveva messo a segno 21 gol. Un' immensità. Moacir ne aveva presi solo quattro. In quel momento era, probabilmente, il miglior portiere del mondo.

 

non guardate le tribune Quando aveva iniziato, a Campinas, la sua città natale, era a lui che toccava segnare. Giocava nella squadra della fabbrica di imballaggio dove lavorava e fu per due volte capocannoniere.Fino a un giorno del 1939, quando venne chiamato dall' allenatore, che era anche suo cognato.«Il portiere si è fatto male, in porta ci vai tu». «Perché io? », rispose Moacir.«Tu sai come si fanno i gol, saprai anche come evitarli».

 

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Moacir si tolse, così, la maglia numero sette dell' Atlético Tamandaré per avviarsi verso i pali, senza sapere che sarebbero stati la sua condanna. Poco dopo, nel 1942, chiese un' aspettativa per allenarsi nel Clube Atlético Ypiranga. Il suo capo gli disse: «Se dovesse andare male, torna». Barbosa non tornò. Anzi, passò al Vasco da Gama e poi alla Nazionale. Vinse tutto. Scudetti e coppe.

 

Gli mancava solo il titolo mondiale.Quel pomeriggio del 16 luglio 1950 lo attendevano anche i 173.850 mila tifosi seduti allo stadio Maracanã. Mentre le squadre stavano uscendo dal tunnel, le loro grida affondarono nelle orecchie dell' ala destra uruguaiana, Alcides Edgardo Ghiggia.

 

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Era giovane, aveva esordito in nazionale appena 71 giorni prima e aveva paura, come tutti. Se ne accorse il capitano Obdulio Varela: «Non guardate mai le tribune». Aggiungendo sei parole che si sarebbero scolpite nella storia: «Los de afuera son de palo!» («Quelli là fuori non esistono!»).Gli uruguagi resistettero e il primo tempo terminò a reti immacolate.

 

Risultato che al Brasile bastava per il titolo, ma non per la gloria: davanti al suo pubblico doveva vincere. Al rientro in campo, Barbosa andò a depositare una bambolina nella rete. Era il suo portafortuna. Sembrò avere effetto: dopo appena due minuti il centrocampista Albino Friaça Cardoso superò il portiere uruguaiano Máspoli e portò in vantaggio la seleção.

 

L' eruzione del Maracanã surriscaldò la presunzione dei brasiliani, che si proiettarono in avanti.

Ma al ventunesimo, in un capovolgimento, Varela servì Ghiggia sulla destra, che lanciò la palla a Schiaffino.

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Il centrocampista prese la mira e fulminò Barbosa. Uno a uno, con il Brasile ancora campione. Scattato il settantanovesimo e scavalcato il centrocampo, Ghiggia si trovò sulla fascia con la palla tra i piedi. I Ghiggia, come i Maspoli e i Gambetta, erano originari del Ticino. Il primo di loro era partito per l' Argentina nel 1870 da Sonvico, suo padre, poi, si era sposato in Uruguay dove aveva messo al mondo cinque figli. Lui era l' ultimo nato. E Ñato fu il suo soprannome.

 

Era venuto fuori con il torace corto e le gambe lunghe. In quel fatidico minuto le fece girare come se fossero risucchiate da un gorgo. In mezzo all' area, intanto, erano sopraggiunti Miguez e Schiaffino. Barbosa se ne accorse e fece un passo verso di loro, pronto ad aggredirli come un felino.

 

Lasciò così un vuoto tra sé e il palo sinistro. Ghiggia lo vide, ma aveva ormai un' angolazione limitata. Anziché passare, però, tirò verso la porta. Quel semplice gesto divise le vite dei brasiliani in un prima e un dopo.

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la bambola colpita Alle 16.38 di quel 16 luglio, al minuto 34 del secondo tempo, Barbosa si tuffò alla sua sinistra inarcandosi all' indietro. La punta delle sue dita sfiorò il pallone e, cadendo sull' erba, il portiere, si urlò dentro: «L' ho deviata!». Ma quando sentì il rumore sordo della bambola capì. Il Maracanã si fermò e in quel silenzio metafisico Ghiggia fece scorrere la sua sagoma lungo l' intero arco della porta. Barbosa, da terra, lo vide sfilare di spalle con quel numero tra le scapole che una volta era stato il suo. Il sette.L a seleção prese d' assalto l' area celeste, ma ormai era dannata.

 

obdulio varela obdulio varela

Quando l' arbitro inglese, il maestro elementare George Reader, fischiò la fine, fu divorata da un dolore insensato. Aveva vissuto il suo sogno per quasi 80 minuti. L' Uruguay, invece, era diventato campione solo perché lo era stato per quei 660 secondi di partita che erano rimasti da giocare. Bastarono per trasformare un episodio sportivo in un evento storico. Era l' alba di una nuova epoca per il Brasile. La vittoria avrebbe cancellato il suo complesso di inferiorità nei confronti del mondo. Ma, dentro uno stadio costruito per rendere grande una nazione, quella squadra giocò contro i propri demoni. E la sua sconfitta convinse i brasiliani di appartenere a un Paese condannato.

 

Lo scrittore Nelson Falcão Rodrigues definì la partita «La nostra Hiroshima». Ma fu chiamata anche la Waterloo dei Tropici. Per quel dolore inspiegabile, alla fine, dovettero inventare una parola nuova - Maracanazo, il disastro del Maracanã - e trovare un responsabile. Era lui, Moacir. «Dov' eri, Barbosa?», scrissero sui muri di Rio de Janeiro.

 

ghiggia ghiggia

Il peso della colpa il giaguaro se lo portò tra i legni, continuando a vincere e a sventare gol, ogni volta nell' affanno disperato di poter graffiare un' approvazione. Ma non servì a nulla. Chiuso con il calcio, si ritrovò, per una ulteriore condanna del destino, a lavorare nello stesso stadio che aveva segnato per sempre la sua vita e nel 1963 ebbe in dono dall' amministrazione del Maracanã i vecchi pali a pianta quadrata sostituiti, per ordine della Fifa, dai moderni legni tondi.

 

Se li portò a casa - in rua João Romariz al numero 56, a Ramos, bairro di Leopoldina, zona nord di Rio - convocò 80 amici e organizzò la più bella grigliata che potesse permettersi. Non bastò a esorcizzare. Nel 1970 una signora lo riconobbe dentro a un negozio: «Lo vedi quel signore? - disse al figlio - È lui che ha fatto piangere tutto il Brasile».

 

maracanà maracanà

una condanna lunga 50 anni Il 18 settembre del 1993, si recò in visita a un ritiro della nazionale ma Mario Zagallo non lo fece entrare. Barbosa scivolò, così, nel suo nulla, trascorrendo gli ultimi anni in un appartamento di 50 metri quadrati a Cidade Ocean, cullandosi in una regolarità che gli dava conforto. Viveva da solo (sua moglie Clotilde era morta a cinquant' anni per un cancro) e non aveva figli. Ogni giorno, prima del pranzo, si preparava un drink composto da una mistura di cachaça, whiskey e Cynar, poi pranzava e si addormentava. Il resto del tempo si stordiva ascoltando bossa nova.

 

«La massima condanna prevista dalla legge brasiliana è di trent' anni - disse prima di andarsene - ma la pena che sto scontando io dura da cinquanta». Non gli rimaneva che aspettare che venisse eseguita. Accadde il 7 aprile del 2000.

 

MARACANA MARACANA

L' uomo che lo aveva trafitto, Ghiggia, ammise di aver calciato male (per questo il pallone era riuscito a insinuarsi tra il palo e il portiere) e difese Barbosa, che, invece, accentrandosi, aveva preso la decisione più ragionevole. L' uruguagio, dunque, era riuscito a segnare perché aveva sbagliato. E Moacir aveva preso il gol per avere fatto la scelta giusta. Quella rete, però, sarebbe rimasta la più famosa della storia calcistica dei brasiliani.

 

Roberto Muylaert, il biografo di Barbosa, descrisse la scena del crimine come il filmato dell' assassinio di Kennedy girato da Abraham Zapruder a Dallas: la stessa drammaticità, la medesima esattezza della traiettoria e persino la nuvola di polvere, sollevatasi quando Ghiggia colpì la palla.

 

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Lo sparo che aveva spento la vita di Moacir. Il sicario del Maracanazo fu l' ultimo di tutti gli uomini in campo ad andarsene. Nel 2015, in casa propria, per un colpo al cuore, davanti a una partita. Come morì un brasiliano in quel pomeriggio da infarto. Quando in una finale che non doveva essere tale, un tiro che non doveva arrivare in porta, beffò un portiere che non doveva trovarsi tra i pali. Per morire Ghiggia scelse il 16 luglio. Quella data consegnava un proposito. Adesso, forse, i conti erano pari.

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