COME E’ PROFONDO IL MARI – MARZIANI: "LA TRIENNALE DI MILANO DEDICA UNA MOSTRA AD ENZO MARI, MAESTRO CHE DEL BIANCO E NERO DINAMICO HA FATTO UNO STRAORDINARIO CODICE SORGENTE. QUALCUNO DIRÀ CHE RIPARLARE DEL BIANCO E NERO È COME DIFENDERE IL VINILE DAVANTI ALLA MUSICA IN FORMATO ELETTRONICO; IN REALTÀ E’ LA RESISTENZA PARTIGIANA DEI DUE COLORI ASSOLUTI CHE MOSTRANO L’INIZIO E LA FINE DI OGNI PERCORSO, IL GIORNO E LA NOTTE CHE SI ADAGIANO SUI NOSTRI OGGETTI E ABITI…" - VIDEO

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Gianluca Marziani per Dagospia

 

 

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Colori acrilici e fluo, colori brillanti e acidi, colori flat e industriali: il mondo dei social media sguazza nella macedonia del pantone siliconico, nella chirurgia digitale del make-up software, disperdendo le radici del bianconero da cui è nato il nostro modo di guardare (cinema, fotografia e carta stampata nella prima metà del Novecento). L’euforia grafica degli anni Sessanta, quando il colore rivelava l’ottimismo di un futuro da accendere, si è ormai trasformata in una euphoria distopica e muscolare, un Tik(mantra)Tok in cui ognuno colora il suo alias digitale, la sua figura di rappresentanza e apparenza, tirata a lucido per tutti i nuovi figli del filler cliccabile.

 

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Oggi, però, lo spettacolo è domestico con tratti manicomiali, un Grande Fratello virale che prevede osservatori lontani ma connessi, spettatori schermati che affinano le lame del commento mentre il flusso sfida ogni ragionevolezza del dignitoso. Uniti nella distanza epidermica, isolati tra pandemie reali ed epidemie culturali che disgregano i vecchi modelli di fruizione: gli umani del Novacene alimentano la paura del contagio e si rifugiano tra parenti e amici stretti, scrivendo lo storytelling del set casalingo, una dark room a luci troppo accese per un trash senza più dogane.

 

Adesso torniamo con lo sguardo verso l’estetica anni Sessanta e Settanta, quando ventenni talentosi dagli obiettivi comuni irradiavano la società dei nuovi consumi(smi). Una magnifica gioventù fatta di sguardi raffinati e sartoriali, un mucchio selvaggio di ricamatori estetici che davano parola e anima alla geometria, sintonizzando essenza e contenuto, funzione e poesia, rigore e alchimia. Una band à part italiana che da Milano ha dettato le regole di una casa moderna e una vita meno legnosa, fatta finalmente di plastica e carta, velocità e senso, leggerezza e follia…

 

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Con lo stesso spirito andiamo alla mostra (e, soprattutto, al bellissimo catalogo Electa) che la Triennale di Milano (con la cura amorevole di Hans Ulrich Obrist, in collaborazione con Francesca Giacomelli) dedica ad ENZO MARI, maestro che del rigore silenzioso, del bianconero dinamico, della bellezza essenziale ha fatto uno straordinario codice sorgente. Ora più che mai, nei giorni di una democrazia digitale e colorata, il maestoso sistema binario del bianconero diventa l’anello mancante del nostro sistema estetico, la parte aerobica che ripulisce l’aria dalle particelle cromatiche in eccesso, ricreando un “paesaggio di montagna” nel cuore della città filamentosa.

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Qualcuno dirà che riparlare del bianconero è come difendere il vinile davanti alla musica in formato elettronico; in realtà il neoumanesimo tecnologico si gioca il tutto per tutto nel plausibile equilibrio tra artigianale e industriale, piccolo e grande, limitato e illimitato, tra una maggioranza cromatica e una necessaria minoranza in bianconero. E’ la resistenza partigiana dei due colori assoluti che mostrano l’inizio e la fine di ogni percorso, il giorno e la notte che si adagiano sui nostri oggetti e abiti, il silenzio e la pienezza che rivelano le quinte del paesaggio interiore, il pattern limpido per ripulirci da troppa trap e dal reggimento reggaeton sui social media.

 

Sapete quale immagine introduce le opere nel catalogo? Una freccia dipinta, liquida e nera come un’onda densa verso il futuro delle continue scoperte. Dice tutto nella sua essenza senziente, nel suo occupare senza riempire, nell’impatto di un lampo semiotico con l’anima della pittura e l’indole della scultura. Una freccia che ha orientato l’intera carriera di Mari, dalle pitture geometriche degli anni Cinquanta alla sua grafica per manifesti e libri, dai suoi capolavori per Danese alle strutture cinetiche degli anni Sessanta, dagli allestimenti all’uso innovativo della melammina, dalla porcellana lavorata a mano ai sistemi di autoprogettazione… una lunga filiera di racconti illuminanti, superfici improvvise eppure persistenti, archetipi con il primitivismo dell’essenza, piccole forme da casa e ufficio che contenevano ogni futuro nella propria classicità al presente.

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Noi marziani guardiamo con ammirazione la capacità terrestre di affermare la funzione attraverso la bellezza. Una dote raggelante e amorevole, frutto di un vostro innato spirito poetico, un vostro mantra caratteristico e platonico, si potrebbe dire che il quid terrestre risieda nel gesto poetico di trasformare la Natura in Cultura.

 

Prendiamo la putrella, quella trave profilata d’acciaio con sezione a doppia T, usata nella costruzione di ponti mobili e solai prima del diffondersi del cemento armato. Enzo Mari la prese in mano, la guardò come si guarda un cucciolo che merita gesti amorevoli. Ne percepì la lingua nascosta, il sangue sotto la scorza, come l’energia di un bicipite teso che carezza neonati.

 

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Diventò contenitore, portacenere, vassoio, mai derogando al poverismo integrale delle origini, alla forza collettiva del design anonimo, al ribaltamento di specie che ogni forma contiene. Ripensando ai modelli teorici dietro Arte Povera, rintraccio albori della teoria celantiana negli oggetti di Mari, nel suo uso poetico della lastra di ferro saldata, nelle sue strutture modulari in cartone cannettato, nei suoi vasi fitomorfici rotti ma prodotti, nelle librerie dai moduli autoaggreganti, nella sedia smontabile con schienale in tela, nei progetti editoriali per Einaudi, Boringhieri e Adelphi…

 

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Non mancano lampi di colore ma sempre per ragioni essenziali, affinché quel rosso o quel verde uniscano corpo e spirito, dentro e fuori, semplice e complesso. Ripensiamo a “La Serie della Natura” (Danese Milano, in collaborazione con Elio Mari), ovvero, serigrafie di una mela, una pera, una pantera, un gorilla, un’oca… tutti col proprio colore acrilico, figli legittimi di un movimento Pop che produceva sogni in filiera industriale, embrioni protodigitali che si moltiplicavano come feticci di una nuova borghesia creativa, destinata ad avvicinare vestiti e oggetti, sogni e progetti, normalità e avanguardia.

 

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In Italia non abbiamo avuto la Rivoluzione Francese, è vero, ma in compenso abbiamo fatto la Rivoluzione Domestica, in grado di farci uscire dal sistema aristocratico del mobilio e degli oggetti d’uso comune, uno spillover collettivo che ha cambiato le nostre abitudini, i nostri rituali, le nostre aspettative sul mondo.

 

Enzo Mari ci ha lasciato nel silenzio elegante che ha contraddistinto la sua presenza pubblica. Era un filosofo della forma funzionale, un poeta alpino che sostituiva i pentametri con il riciclo di frammenti artigianali e industriali. Costruiva cose semplici dai sentimenti complessi, pezzi seriali che non avevano bisogno di aggettivi dopo il sostantivo. Le sue opere erano sostantivi con l’infinito del verbo “essere”, marchingegni elementari che chiedevano normalità senza manutenzione.

enzo mari calendario perpetuo enzo mari calendario perpetuo

 

Mari somigliava ad un marinaio di Hemingway, aveva un volto che sembrava nato per la lana e il bianco, uno sguardo che non indicava aggiunte, una maestria limpida come acqua nel vetro. Era un uomo del mare interiore, per precisione un poeta che ha reso navigabili i suoi MARI. Grazie per la navigazione da fermi: da pochi giorni non sei più terrestre ma il viaggio continuerà ancora a lungo, sperando in un nuovo mondo che riporti il giorno al tuo bianco e la notte al tuo nero.

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