UN MARZIANI A ROMA – CHI HA PAURA DEL BUIO? IL LATO OSCURO DEL MUSJA, IL MUSEO VOLUTO DALL’IMPRENDITORE E COLLEZIONISTA OVIDIO JACOROSSI, TRASFORMATO GRAZIE ALLA MOSTRA CURATA DA DANILO ECCHER IN UN POST LUNA-PARK CONCETTUALE TRA CROCI, BRUCIATURE E RAGNATELE, ANIMALI GIGANTI E SANGUE SULLE TELE – I 13 ARTISTI COINVOLTI

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Gianluca Marziani per Dagospia

 

 

Robert Longo, Untitled (Burning Cross–From the American Stories Cycle), 2017 Robert Longo, Untitled (Burning Cross–From the American Stories Cycle), 2017

Formidabile ottobre di opening romani: un’infilata di musei, fondazioni e gallerie che gareggiano per sfruttare le serate calde e accaparrarsi fiumi di pubblico non pagante, più o meno elegante, spesso criticante e poco paziente. Da alieno curioso ho imparato come evitare lo tsunami mondano, scegliendo il giorno dopo l’opening per godermi la visita, quando il clima è ancora elettrizzato, le opere si presentano al loro meglio e le sale non si affollano di instagrammer nevrotici.

 

Gianluca Marziani Gianluca Marziani Gianluca Marziani Gianluca Marziani

La miglior sorpresa del day after opening mi è capitata nei rinnovati spazi di MUSJA, il museo voluto dall’imprenditore e collezionista Ovidio Jacorossi, dentro quella che era la bottega del padre in via dei Chiavari. Uno spazio non certo facile, sorta di dedalo intricato che si snoda tra le antiche fondamenta di una cubatura labirintica. Quando venne aperto nel 2017 (si chiamava MUSIA) per mostrare la collezione Jacorossi, l’impostazione era poco congrua al tipo di architettura: troppi quadri alle pareti, tutto molto canonico e freddo, un tentativo traballante di costruire percorsi museografici dentro uno spazio che, invece, andava interpretato nelle sue anomalie, nelle criticità che dovevano inventare un virtuosismo scenico.

 

Merito alla proprietà per aver capito e corretto il tiro, trasformando l’ambiente in un luogo immersivo e sensoriale. Merito, soprattutto, a Danilo Eccher, curatore di una mostra che parla fluidamente e stuzzica quattro sensi su cinque: la vista in modalità aumentata, il tatto che ci invita al tocco furtivo di alcune opere, l’olfatto quasi sempre acceso e l’udito che si diffonde dove serve; resta fuori il gusto che riserverei per un aperitivo da Roscioli, a pochi metri da Musja, dove il rosso parla di ottimi vini e la paura annega nei fremiti alcolici.  

James Lee Byars, The Chair of Transformation, 1988 James Lee Byars, The Chair of Transformation, 1988

 

THE DARK SIDE - CHI HA PAURA DEL BUIO? è il titolo scelto per un percorso in tredici fermate, un post luna-park concettuale, artisticamente elevato, in felice sintonia col parco Dismaland firmato Banksy, uno di quei progetti epocali che hanno indicato la misura del futuro. Tredici artisti accompagnano il pubblico nelle oscure derive della paura, qui declinata per temi e ambientazioni, un dark side che è bruciature e ragnatele, corde rasta e croci razziste, animali giganti e sangue sulle tele… detto così sembrerebbe un set di Dario Argento e Sergio Stivaletti, in realtà i 13 artisti coinvolti, tutti ben accreditati sul piano curriculare, trasformano la mostra in esperienza a 360 gradi, reinventando archetipi e immaginando mondi surreali.

 

Si parte con il tedesco Gregor Schneider, rimasto un mese a Roma per completare il suo corridoio dark in cui opere e pareti sono il risultato mefistofelico di un ipotetico incendio in pinacoteca. L’installazione invita allo sguardo nel buio, coinvolgendo alcuni quadri (collezione Jacorossi) che bruciarono realmente in un incendio del 1992. Tra sentori di fuliggine e pitture sopravvissute, l’opera di Schneider diventa prologo alle tenebre ma anche riflessione sul museo nel tempo della riproducibilità digitale.  

 

Appena usciti dal nero cosmico ci si imbatte nelle tre sculture gigantesche del britannico Monster Chetwynd, sorta di halloween museale tra scenografie b-movie, mostri di Bomarzo e Carnevale di Viareggio. Sono opere divertenti e al contempo repulsive, assurdamente kitsch nel loro spirito esoterico e ridanciano, fagocitanti per cannibalismo metaforico e grottesco gotico.

Sheela Gowda, People Matter, 2019 Sheela Gowda, People Matter, 2019

 

Flavio Favelli infila tubi al neon dentro lampadari in cristallo che ricordano un interno kubrickiano. Sembra un lavoro meno dark side degli altri, in realtà è un inquietante mix tra passato domestico e freddezza industriale, un tocco postatomico per un destino distopico da “Black Mirror” barocco.

 

L’americano Robert Longo ti arriva addosso come un gancio allo stomaco: il suo disegno gigante con una croce infuocata è puro terrore da razzismo feroce, un’icona mostruosa in stile KKK che ci avverte sul più subdolo tra i pericoli sociali. La paura, figlia del nero oscuro, diventa terra solida ma labile, proprio come il tratto della sua affidabile e ossessiva manualità.

 

Il francese Christian Boltanski proietta il volo degli efemerotteri su alcuni sudari a soffitto, sfidando la brevità biologica con una morbidezza che rifonde luce dopo il vortice nero di Longo. Quasi una rinnovata speranza, intrisa di una morte che è dentro la natura, fuori dagli artifici morali.

 

Tony Ousler, BlocK, 2019 Tony Ousler, BlocK, 2019

L’altro americano Tony Oursler proietta volti su elementi sagomati, confermando un’invenzione videografica che ancora regge dopo decenni; le facce che parlano sono oniriche e taumaturgiche, una decapitazione declamante in cui il futuro tecnologico teatralizza un sogno mostruoso tra Philip K. Dick e William Gibson.

 

Tony Oursler, SenS, 2019 Tony Oursler, SenS, 2019

L’indiana Sheela Gowda dispone lungo i muri le sue corde di capelli intrecciati, una sorta di mappatura del passaggio umano, delle tracce fisiche, dei reperti che contengono l’incertezza, la perdita, il continuo cadere mentre si attraversa il buio.

La giapponese Chiharu Shiota ci regala un momento perfetto: una stanza con due brandine singole e un filare impressionante di ragnatele nere che avvolgono i letti, come se durante la notte avesse preso forma l’archetipo degli archetipi, il grande mostro che tesse i fili del possesso totale.

 

Gianni Dessì si muove tra pittura e scultura, ricreando un gioco di sfasature ottiche, una prospettiva guidata in cui una piccola testa incarna una vertigine lisergica nel rosso. La grotta di Dessì mescola violenza cromatica e riflessione, geometria e apertura ambientale, ipnotizzando nel colore l’urlo del dolore collettivo.

 

Flavio Favelli, Grande Oriente, 2019 Flavio Favelli, Grande Oriente, 2019

In tema di sanguinamenti, l’austriaco Hermann Nitsch ci avvolge con le sue tele dal sangue rappreso, figlie dei suoi rituali di squartamento animale (Orgien Mysterien Theater). Una vera e propria liturgia che si ripresenta lungo le pareti di Musja, trasformando il piano inferiore in un luogo di sacralità inquietanti.  

 

Gino De Dominicis segue la scia del rosso con un volto dal naso gigantesco, una proboscide da uccello satanico che sembra ritrarre tutto il mistero dietro il male. E’ una figura spavalda, misteriosa e sospesa, un guardiano pericoloso che ci avverte sulle avversità del destino. E sulle molte facce che la malvagità può incarnare.  

 

Hermann Nitsch, The Conquest of Jerusalem, 2008 Hermann Nitsch, The Conquest of Jerusalem, 2008

Monica Bonvicini si conferma una delle più radicali artiste italiane, spiazzante nel modo di riusare l’esistente, creando aggregati che parlano di corpi estremi e genderismi, erotismo e violenza, di confini labili tra sofferenza e piacere. Le sue cinture nere che formano una palla o una griglia sono inquietanti, aggressive, un potenziamento dei sensi che sostituisce il corpo con la sua narrazione feticistica. 

Christian Boltanski, Les Ephemeres, 2018 Christian Boltanski, Les Ephemeres, 2018

 

Chiudiamo il nostro sipario con le tende rosse socchiuse di James Lee Byars, alchimista delle arti (l’artista americano è morto nel 1997) che immaginava la sua utopia cosmogonica, il suo universo metafisico con cui sollevare gli uomini dal limite delle carni mortali. Dietro le tende scorgiamo una misteriosa sedia del XVII secolo, adagiata in uno spazio vuoto, sorta di rimando alla memoria umana, al rito della Storia, alla speranza terrena che anima il pensiero prima dell’utopia.

Monster Chetwynd, Red and Black Head, 2018 Monster Chetwynd, Red and Black Head, 2018

 

Questa camera rossa somiglia alla navicella con cui sono sceso sul Pianeta Terra, mi viene quasi da pensare che l’artista avesse intuito qualcosa sui mondi alieni che popolano le galassie. Voi terrestri siete davvero incredibili: riuscite a vedere così lontano, andate dove la veggenza spalanca confini e poi vi perdete in un bicchier d’acqua (si dice così, giusto?). E’ la Terra il vero mistero dell’universo, fidatevi.   

 

DANILO ECCHER DANILO ECCHER Sheela Gowda, People Matter, 2019 Sheela Gowda, People Matter, 2019 Monster Chetwynd, Bat, 2018 Monster Chetwynd, Bat, 2018 dsc 5160 dsc 5160 Hermann Nitsch, Untitled 2014 Hermann Nitsch, Untitled 2014 Hermann Nitsch, Untitled 1997 Hermann Nitsch, Untitled 1997 Hermann Nitsch, Installation view Hermann Nitsch, Installation view Monica Bonvicni, BeltDecke #4, 2017 Monica Bonvicni, BeltDecke #4, 2017 Gianni Dessì, Camera Oscura, 2019 Gianni Dessì, Camera Oscura, 2019 Chiharu Shiota, Sleeping is like Death, 2019 Chiharu Shiota, Sleeping is like Death, 2019 Hermann Nitsch, Installation view Hermann Nitsch, Installation view Chiharu Shiota, Sleeping is like Death, 2019 Chiharu Shiota, Sleeping is like Death, 2019 Chiharu Shiota, Sleeping is like Death, 2019 Chiharu Shiota, Sleeping is like Death, 2019 ovidio jacorossi foto di bacco (1) ovidio jacorossi foto di bacco (1)

 

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