LA GRANDE GUERRA DEL GIORNALISMO - NEL LIBRO "MERCANTI DI VERITÀ" JILL ABRAMSON, PRIMA DONNA A DIRIGERE IL "NEW YORK TIMES", RACCONTA COME STA CAMBIANDO IL BUSINESS DELL'INFORMAZIONE, CON ANEDDOTI SU VENDETTE PERSONALI SUBITE E RICAMBIATE E SCAZZI TRA MASCHI BIANCHI ANZIANI E MONDO GENDER - GIANNI RIOTTA: "LA GENERAZIONE UNDER 40 NON SEMBRA SIMPATICA AD ABRAMSON, LA TROVA TROPPO POLITICAMENTE CORRETTA, POCO ESPERTA, A CACCIA DI CLICK SU CULTURA E COMUNITÀ LGBT. MA A FARE LA DIFFERENZA È…"

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Gianni Riotta per “La Stampa

 

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«Il vero pericolo è non riuscire ad evolversi»: questa scritta, apparsa nella redazione del leggendario quotidiano Washington Post, che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni nel 1974 e fece innamorare una generazione del giornalismo, con Dustin Hoffman e Robert Redford al cinema nella parte dei reporter Carl Bernstein e Bob Woodward, è l'epitaffio della vecchia, gloriosa, stampa «mainstream», incapace di mutare pelle nel secolo digitale.

 

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La massima venne graffita quando il giornale, per generazioni proprietà della famiglia Graham, dovette arrendersi al nuovo editore Jeff Bezos, fondatore di Amazon, per i cultori dello status quo fine di un'era, per altri inizio di una stagione nuova.

 

La saga è parte dell'opus magnum di Jill Abramson, Mercanti di verità. Il business delle notizie e la grande guerra dell'informazione, tradotto ora da Andrea Grechi e Chiara Rizzuto per Sellerio, 904 pagine dense di ricordi, giudizi sulla mutazione del «business model» dei media, vendette personali subite e ricambiate, scontri tra giornalismo dei maschi bianchi anziani e mondo gender, con donne, giovani e minoranze alla ribalta, sfide dei formati web e digitali alla stampa, brand globali a secernere pubblicità occulta.

 

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Invisibile al management e alle direzioni inamidate dei giornali, la mutazione culturale di una sterminata massa di cittadini, passata dall'edicola al dialogo online, chiudeva la stagione eroica del Watergate e schiudeva i profitti di BuzzFeed, Vice, testate digitali senza scrupoli tra pubblicità e cronache, pronte a titillare i click con scemenze e foto birichine, mentre Facebook diventava piazza mediatica in cui il fatturato viene prima della lotta alla disinformazione. Di questa epica Jill Abramson è protagonista e testimone.

 

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Prima donna direttrice del New York Times nel 2011, definita da un collega, lo riporta lei quasi con fierezza, «donna con due p come meloni di ferro», Abramson decide di erigere un muro tra redazione e manager e non accettare nessun compromesso con la famiglia Sulzberger, editore del quotidiano: «Non volevo che il mutamento tecnologico portasse a mutamenti di etica». E quando le propongono di lanciare un inserto di moda e costume dice repentina di no, solo perché l'idea non è di un redattore ma di un manager.

 

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Mercanti di verità contrappone il declino di Washington Post e New York Times all'ascesa di BuzzFeed e Vice, con i loro pittoreschi leader Jonah Peretti e Shane Smith, che Abramson, cronista esperta, tratteggia fra corse nudi in redazione, molestie sessuali, con un direttore che impone alla sua collega, e amante, di non presentarsi a un premio alla Columbia University perché lui andrà con la moglie sottobraccio. La generazione under 40 non sembra simpatica ad Abramson, la trova troppo politicamente corretta, poco esperta, a caccia di click su cultura e comunità Lgbt.

 

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Al vecchio mondo della carta stampata Abramson rimprovera di aver abolito il confine tra sponsor e giornalismo e di esser maschilista, all'informazione digitale di non avere scrupoli nel mescolare informazione e spot, essere effimera, poco colta, scadendo nella «cancel culture».

 

Alla fine, la direttrice del New York Times si rifiuta di discutere con l'editore di un radicale «Rapporto sull'Innovazione» e vuol licenziare il vicedirettore, Dean Baquet (che intima a un cronista sgradito «Spero ti aprano un secondo b.. del c»).

 

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Arthur Sulzberger jr, publisher del giornale, licenzia allora Abramson, attribuendole comportamenti troppo duri con la redazione, scenate, rimproveri smodati. Per l'autrice non è la diversa filosofia editoriale la ragione dell'allontanamento, ma l'essere giudicata «bitch», donna insopportabile, per di più meno pagata dei predecessori uomini (il Times nega l'addebito).

 

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Il volume innesca polemiche, i siti imputati individuano intere parti che accusano di plagio e dichiarazioni prive di virgolette precise, Abramson si difende e scusa, ma Mercanti di verità resta lettura appassionante per chi abbia a cuore le sorti dei media e della democrazia, nell'epoca di fake news e populismi.

 

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Nel frattempo, però, New York Times e Washington Post hanno superato il declino, riducendo le perdite e mettendo nel mirino profitti, senza perdere rigore e prestigio e, anzi, grazie al web, conquistando audience planetaria, mentre Vice e BuzzFeed attraversano non pochi guai.

 

A tratti Jill Abramson riduce il cambio di comunicazione culturale in corso a deplorevole stringa di abusi etici, come se un formato editoriale avesse la primazia morale ed altri fossero sentine di vizio. Non è così, ci son giornali pessimi e ottimi siti e viceversa, è il contenuto a far la differenza non la distribuzione.

 

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Abramson paga la nostalgia per un passato che, fra discriminazioni, censure e avidità, mai fu d'oro zecchino, e la diffidenza per un futuro di cui non vede gli orizzonti positivi, raggiungibili con matura consapevolezza.

 

L'ex direttrice si riscatta però con la passione tumultuosa per il nostro mestiere e la sincerità aspra, investendo i nemici senza nascondere, con autocritica lodevole, i propri errori: perché davvero «il vero pericolo è non riuscire ad evolversi».

 

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