LE ULTIME SETTIMANE DI ANTONIO NOGARA, L'IMPRENDITORE CHE SI È TOLTO LA VITA NEL SUO CAPANNONE A NAPOLI: LA PREOCCUPAZIONE PER QUELLI CHE LAVORAVANO CON LUI, LE CONTINUE RICHIESTE SU QUANDO SAREBBERO ARRIVATI I SOLDI DELLA CASSA INTEGRAZIONE, LE TELEFONATE QUOTIDIANE A OGNUNO DEI DIPENDENTI PER OFFRIRE UN AIUTO - IL RACCONTO DI ALTRI COME LUI: LE GARANZIE STATALI FINORA SONO STATE UNA PRESA IN GIRO, LA CIG NON SI È VISTA

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1. PER SETTIMANE OGNI GIORNO LE TELEFONATE AI DIPENDENTI IL DRAMMA DI ANTONIO E LA PAURA DI NON FARCELA

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera

 

I suicidi non hanno titoli di coda che spiegano tutto, che raccontano ogni dettaglio. Chi resta vede lo schermo già buio, che può assumere diversi contorni - in questo caso l' immagine di un uomo strangolato da un cappio - ma che propone sempre e solo la stessa scena: fine.

 

Poi si cerca di capire, e non si capisce mai fino in fondo.

LA BOTTEGA DI ANTONIO NOGARA LA BOTTEGA DI ANTONIO NOGARA

Nemmeno nella tragedia di Antonio Nogara. Ci sono quei biglietti indirizzati alla moglie Anna e alla figlia Federica, ma è una cosa loro, sono parole di un uomo che sta dicendo addio alla vita e sta inutilmente provando a spiegarne il perché alle due donne che della sua vita sono state l' amore profondo. Chi ha diritto a sbirciare tra quelle parole?

Parlava della crisi, del lockdown, dell' azienda di mobili e di allestimenti per negozi costretta a chiudere da un giorno all' altro e ad avviare la procedura per mettere in cassa integrazione i dipendenti?

 

No. Non apertamente, almeno. Sua moglie ha voluto farlo sapere a tutti affidando un messaggio al sindaco di Cercola Vincenzo Fiengo: l' impresa di famiglia non era in crisi, aveva dovuto adeguarsi alle regole di questi mesi, ma era solida, e probabilmente sarebbe riuscita a riprendersi nonostante la mazzata delle tante settimane di chiusura.

Eppure Antonio aveva paura. Anzi, era angosciato più che impaurito. Uomo dal carattere sensibile e profondamente attento a tutti quelli che facevano parte della sua vita, aveva incontrato in passato quel male spesso inafferrabile che è la depressione.

 

Aveva combattuto e ne era uscito, ma quando si viene morsi una volta da quella sensazione dove tutto è colorato di nero, la cicatrice non si rimargina mai completamente.

Qualcosa rimane, silente e incombente, e può esplodere in qualsiasi momento, ma in certi momenti di più.

LA BOTTEGA DI. ANTONIO NOGARA LA BOTTEGA DI. ANTONIO NOGARA

 

E questo è uno di quei momenti. Lo è per tanti e lo è stato anche per Antonio che ha cominciato ad ingigantire le preoccupazioni oggi comuni a qualunque imprenditore. La preoccupazione per quelli che lavoravano con lui, le continue richieste di informazioni su quando sarebbero arrivati i soldi della cassa integrazione, e le telefonate quotidiane a ognuno dei dipendenti per offrire un aiuto, immaginando quanto fossero in difficoltà.

 

Oggi i suoi amici cercano le frasi più affettuose per ricordarne la bontà d' animo, la lealtà, la disponibilità. Succede sempre nei necrologi da sociale network, ma la storia di Antonio Nogara racconta che quei commenti riferiscono semplicemente la verità. Forse per i suoi affetti sarà ancora più difficile da accettare, ma la paura che lo ha spinto alla più estrema delle scelte non è una paura egoista.

 

Antonio Nogara sapeva che avrebbe potuto farcela a restare in piedi. Lavorava da quarantacinque anni in quella attività che prima apparteneva a suo padre, e di momenti difficili - anche se mai come questo - ne aveva attraversati e superati altri. Ma sapeva anche che qualcosa sarebbe cambiato. E che sarebbe cambiato quello a cui lui teneva di più: l' affidabilità, la credibilità. Non aveva mai mancato di onorare un pagamento, ai collaboratori non faceva mancare nulla, e ora non sapeva più quando tutto questo sarebbe stato di nuovo possibile. E poi: con la crisi quanti negozi avrebbero continuato a rivolgersi a lui?

 

LA BOTTEGA DI ANTONIO NOGARA LA BOTTEGA DI ANTONIO NOGARA

Era così legato al suo lavoro, e ancora di più dopo che Federica si era laureata in architettura e aveva cominciato a occuparsi di alcuni progetti che lo riempivano di orgoglio.

Certo, lei aveva studiato, ma quante cose le aveva imparate anche dal papà, che non era architetto né designer, ma che si era fatto conoscere non solo a Napoli ma in tutt' Italia.

 

E forse non è un caso che abbia scelto di farla finita proprio in azienda, dove era tornato da un giorno e dove forse aspettava di tornare proprio per farla finita. Queste cose può spiegarle solo chi conosce per professione le dinamiche che regolano un gesto terribile come il suicidio, ma Antonio avrebbe potuto trovare altri posti e altri momenti. Invece ha voluto aspettare di riaccendere la luce in ufficio.

Poi ha spento la sua.

 

 

2. "NON LASCIATECI SOLI STIAMO VIVENDO LA CRISI SULLA NOSTRA PELLE"

Marco Patucchi per “la Repubblica

 

«Solitudine. Mi sento più solo di sempre». Alessio Rossi, quarant' anni, è il presidente dei giovani di Confindustria. È anche il patron di un' azienda di costruzioni generali, la Imaco, che dà lavoro a un centinaio di persone. Lo stereotipo dell' imprenditore che vive l' angoscia di un' emergenza senza precedenti per la sua generazione e che, se guarda avanti vede solo un grande vuoto.

ANTONIO NAGARO ANTONIO NAGARO

 

«Altro che l' immagine del condottiero che sa sempre cosa fare ». Il suicidio del piccolo imprenditore campano sposta per un giorno la luce dei riflettori dagli eserciti di lavoratori messi in ginocchio dalla crisi, a chi quelle schiere le guida. Con il peso della responsabilità di tutte le persone che dipendono dalla salvaguardia di una fabbrica, di un cantiere, di un negozio. «Vede - spiega Rossi - oltre a dover fronteggiare un nemico invisibile come il virus, siamo alle prese con un governo che fa tanta comunicazione senza però ascoltare chi la crisi economica la sta vivendo sulla propria pelle».

 

L' inconcludenza, almeno ad ascoltare gli imprenditori, delle misure di sostegno sbandierate prima e messe in campo poi dalla politica: «Vogliamo parlare della liquidità? Ci offrono la possibilità di indebitarci a condizioni, sì, migliori ma con tempistiche standard. I soldi servono velocemente e non solo quelli dei prestiti sotto i 25 mila euro. Qui al distaccamento fisico si sta aggiungendo quello sociale, tra lavoratori di serie A più tutelati dei lavoratori di serie B, e penso al pubblico impiego rispetto al settore privato. Tra imprese grandi e imprese più piccole. Ricordiamoci sempre che la cassa integrazione è fatta con i soldi delle imprese, non è un regalo».

 

Miguel Belletti guida la Cooperativa sociale "Vedo Giovane" di Novara. L' altro stereotipo, la dimensione imprenditoriale della compartecipazione. Ma le angosce oggi sono le stesse, per lui e per il centinaio di persone che lavorano nella cooperativa: «Ci occupiamo di educazione parascolastica, dei minori segnalati dai centri sociali, degli anziani - racconta Belletti -. Abbiamo fermato tutto il 24 febbraio e i nostri lavoratori sono in cig, ma i soldi ancora non arrivano dall' Inps e noi non li possiamo anticipare come fanno altre aziende perché ci manca la liquidità.

fabbrica coronavirus 1 fabbrica coronavirus 1

 

 Lo sa qual è il paradosso? Il nostro "cliente" è l' amministrazione pubblica che, come sempre, paga molto in ritardo. Lo stesso Stato che ci dà, sempre in ritardo, la cig». Il consiglio d' amministrazione della cooperativa si è riunito proprio in questi giorni ed è stata l' occasione per provare a guardare avanti: «Il passato purtroppo non ci può insegnare nulla su questa emergenza - dice Belletti - e il futuro è vuoto. Insomma, è un attacco al pensiero. È come essere ciechi. Per uscirne bisognerà stare tutti insieme, rispondere al necessario distanziamento fisico con la vicinanza sociale. Ragionare come "noi" prima che come "io"».

 

Michel Elia, invece, è costretto a ragionare partendo solo da se stesso. Una solitudine obbligata. «Ho 44 anni e ho visto morire il sogno della mia vita prima che nascesse. Facevo il dj e quando ho messo da parte abbastanza soldi ho comprato una società a Viterbo, una discoteca. Insomma, sono diventato imprenditore con un progetto che dà lavoro, tra barman, cassieri, addetti alla sicurezza, parcheggiatori e dj, a una quindicina di persone.

 

A inizio marzo ero pronto a partire, già era in programma il primo evento. Il coronavirus ha fermato tutto e adesso mi ritrovo a pagare un affitto di tremila euro al mese che ancora non sono riuscito a farmi sospendere e mi è arrivata una bolletta della luce di 500 euro senza che avessi acceso un solo faretto».

recessione coronavirus recessione coronavirus

 

Il sogno di Michel morto all' alba. E ora la paura del futuro: «Ho chiesto a una banca il prestito con garanzia statale, ma mi hanno risposto che serve anche quella mia e del mio socio. Una presa in giro. Mi sono dato settembre come scadenza, se non sarò riuscito a riaprire rinuncerò definitivamente al mio sogno imprenditoriale. E non so proprio cosa farò per tirare a campare. Cosa dire a mia moglie, e ai miei due figli».

 

 

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