panatta bertolucci

“NON SI GIOCANO VOLÉE COL BOIA PINOCHET” - 40 ANNI FA L’ITALIA DI PANATTA VINSE LA COPPA DAVIS DI TENNIS PER LA PRIMA E UNICA VOLTA CONTRO IL CILE DOPO FEROCI POLEMICHE - CLERICI RICORDA IL BOICOTTAGGIO DEL PCI, GLI INSULTI AL CAPITANO NICOLA PIETRANGELI E L’ACCOGLIENZA AL RITORNO DEI NOSTRI NON CERTO ENTUSIASTA

 

Gianni Clerici per “Il Venerdì - la Repubblica”

PANATTA BERTOLUCCI PANATTA BERTOLUCCI

Sono passati quarant’anni, da quando vincemmo l’unica volta la Coppa Davis, ma ancora ricordo un Paese non meno diviso che nel referendum tra Repubblica e Monarchia o nel recente Sì o No. In Cile si era infatti verificato un colpo di stato di destra, sostenuto dai Trump americani dei tempi, ed era andato al potere il generale Pinochet, e alla tomba l’ex presidente Salvador Allende.

 

La vicenda era vivamente sentita, non solo per il match di Davis che la nostra squadra doveva sostenere, ma come un interrogativo alla decisione della Russia sovietica, alla quale si ispiravano ancora le sinistre italiane. La Russia si era infatti ritirata in semifinale contro il Cile, spingendo addirittura gli italiani a una impossibile richiesta di campo neutro, e alla minaccia di un nuovo ritiro.

 

PANATTA PIETRANGELIPANATTA PIETRANGELI

Quarantaseienne giornalista del Giorno, politicamente schierato come liberale di sinistra, ebbi anch’io un mio piccolo ruolo nella vicenda quando, per un articolo del mio capo Giulio Signori, al quale avevo ceduto la carica che era stata mia per 24 ore, detti le dimissioni, e fui amabilmente redarguito e riassunto dal mio direttore, Italo Pietra, ex-comandante partigiano delle formazioni dell’Oltrepò di Giustizia e Libertà.

 

La vicenda politica andò via via irrigidendosi, sino a giungere all’occupazione della Federtennis da parte di quelli che definii i Balilla Rossi che, insieme a un personaggio che doveva divenire – ironia – segretario della Fit, frantumarono i vetri gettandovi le macchine da scrivere.

 

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Sulle pagine del Giorno, che rileggo, trovo una mia intervista con l’amico Gillo Pontecorvo, che prima ancora che regista fu maestro di tennis, e altri due cinematografari, Adriano Migliano (attore ) e Mario Brenta (regista). Pontecorvo afferma: «Non devono andare». E, rivolto a me: «Non ti riconosco più, da quando portavi i mitra ai partigiani della 52esima garibaldina».

 

E io: «Non credo che vendendo tecnologie ai cinesi si diventi maoisti, e giocando a tennis con i cileni si diventi fascisti». Un altro mio incontro occasionale avvenne durante una partita di calcio nel parterre dello Stadio Olimpico, con l’onorevole Berlinguer, civilmente ma testardamente per il No, al quale domandai se sapesse che a Santiago non avevamo più un ambasciatore ma un incaricato d’affari.

 

«Un altro esempio del rifiuto ad avere rapporti con quel Paese» commentò Berlinguer. «Ma i rapporti economici sono ancora attivi» ribattei io e, a questo proposito, posso ricordare la volta in cui mi fu negata la partecipazione a una trasmissione Rai perché avevo anticipato di possedere le cifre relative agli sbarchi del rame cileno a Fiume: città ribattezzata Rijeka, dove gli scaricatori jugoslavi di Tito non rifiutavano certo un’attività boicottata dai loro colleghi triestini. Decisi a non privarsi di una grande chance erano i nostri tennisti, Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Tonino Zugarelli.

 

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Avevano battuto la Gran Bretagna sull’erba di Wimbledon, l’Australia sul morbido tappeto del Foro Italico, dopo che Adriano aveva raggiunto, nel suo anno migliore, la vittoria al Roland Garros seguita a quella degli Internazionali. Adriano era socialista, e aveva affermato: «Bisogna che mi tolgano il passaporto, per non lasciarmi andare in Cile».

 

Capitano di quella squadra, in continuo attrito col dt Belardinelli, era Nicola Pietrangeli, che aveva preferito, a diciott’anni, il passaporto italiano a quello francese. Sotto le sue finestre, a Roma, si formava spesso una folla che lo insultava al grido di fascista, più altri aggettivi. Era stato in finale della Davis da tennista contro l’Australia, 1961, Nicola, ma contava di vincere la Coppa da capitano.

panatta pietrangeli bertoluccipanatta pietrangeli bertolucci

 

Alla fine di quella sorta di guerra incivile, con i dirigenti federali, come il nuovo presidente Galgani, soverchiati dalla vicenda, le resistenze social-comuniste si smorzarono, e l’incaricato comunista, l’onorevole Ignazio Pirastu, trovò modo di augurare in segreto la vittoria a Pietrangeli, mentre si spegnevano sulle labbra dei Balilla Rossi le note della canzone di Modugno “Non si giocano volé contro il boia Pinochet”.

 

Partimmo dunque, un centinaio di tifosi e giornalisti trasportati da un Dc9 organizzato da Puli Bonomi, agente di viaggio aficionado. Sbarcammo a Santiago e il primo taxista cileno che interrogai, su suggerimento del mio amico e grande cronista Enzo Biagi, mi informò che un suo cugino languiva in carcere per essersi permesso una barzelletta sui generali, una zia ancor piacente aveva subìto violenza da tre poliziotti, e la metà dei suoi colleghi autisti non erano che spie al servizio di Pinochet.

 

Fummo ospiti di uno scicchissimo Hilton, dove ritrovai alcuni importanti colleghi intenti agli aperitivi e a deridere chi, come me, era favorevole alla trasferta. Presi allora la strada del campo da tennis, dove ancora la ditta degli emigrati Fratelli Arrigoni stava alzando le tribune, e trovai modo di entrare in campo, su una panca, per seguire l’allenamento diretto dal mio amico Lucho Ayala, che era stato avversario di Pietrangeli nella finale del 1960.

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Avevo letto che il numero uno cileno Álvaro Fillol stava modificando il movimento di battuta. Mi era parso un po’ strano. Ma quando lo vidi battere, capii quel che c’era sotto. Ricordo che, vedendomi sorridere, Ayala mi fece uscire dal campo, ma questo non mi impedì il titolo che rileggo in grande rilievo sul Giorno del 16 dicembre 1976: «Il Cile è zoppo». «Oggi Fillol non ha mai servito altro che con il braccio, senza utilizzare gli addominali, i dorsali, la forbice di gambe». Simile notizia, che mi affrettai a comunicare a Nicola, non fece sì che, al di fuori della squadra, non permanessero gli effetti politici della trasferta sì, trasferta no.

 

I dirigenti federali, soverchiati da una vicenda più grande di loro, rimasero mediocri, tanto che, al sorteggio, i nostri tennisti si rifiutarono di indossare le cravatte federali, allacciandosi invece la mia, che un amico setaiolo comasco aveva ricavato da un’illustrazione del mio libro 500 Anni di Tennis. Vivo conforto, sempre al sorteggio, mi venne dalla presenza del giudice arbitro argentino Enrique Morea, finalista di 5 doppi nei Grand Slam, che mi rassicurò circa il comportamento dei giudici di linea e del pubblico, aggiungendo: «E poi ci sono io».

 

Lui, Morea, che aveva impedito il furto romeno nella prima Davis organizzata in casa del Challenger, un match in cui fui arrestato per aver gridato, al quindicesimo errore in favore di Tiriac: «Ladri!».

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Il pubblico mi apparve infatti molto meno rumoroso di quanto avessi temuto, e credetti di intuire una sorta di gratitudine per la presenza degli italiani, dopo i dubbi che erano filtrati anche attraverso la censura cilena. Pinochet ebbe la saggezza di non farsi vivo, sostituito dal comandante dell’aeronautica. Ricopio ora alcune righe di un match che seguii in prima fila, seduto a quattro metri da Pietrangeli, tanto da scambiare con lui più di un’opinione, mentre la tromba di tale Jorge Juradini colmava dei suoi acuti gli intermezzi.

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«A colpi rabbiosi di racchetta, Corrado Barazzutti è riuscito a liberarsi dalla ragnatela di paura che l’aveva avvolto nei primi tre set di un’angosciosa partita contro Fillol». Fin dai primi scambi Corrado si era reso conto che, con il Fillol di oggi, il risultato era da strappare. Lungi dall’incoraggiarlo, la consapevolezza gli aveva tolto il respiro, «reso il suo gioco ineguale, asciugato il cuore». Simile stato d’animo sarebbe via via svanito, il Soldatino, come l’avevo soprannominato, avrebbe finito per vincere un quarto set su un avversario impotente per 6 a 1.

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Era poi la volta di Panatta contro il numero due Patricio Cornejo, e ricopio: «Sul rassicurante 1-0 Panatta andava in campo con tutta disinvoltura. Tra uno scambio e l’altro trovava modo di scambiare languide occhiate con la moglie Rosaria, sfavillante in prima fila».

 

Tra le molte dimenticanze di questo articolo, mi sono finora scordato di annotare che, per la prima volta, Pietrangeli aveva consentito ai suoi di portare le mogli, sebbene dormissero in camere separate. Sul 2 a 0 mentre tutti, e anche il Giorno, annunziano la sicura vittoria dell’Italia, nonostante il titolo sia soverchiato da «Piano contro il terrorismo» a tutta pagina, ricopio:

nicola pietrangelinicola pietrangeli

 

«Grande protagonista Adriano Panatta, che ha letteralmente condotto per mano Paolo Bertolucci, molto inferiore ad altre sue esibizioni tennistiche». Si concludeva, così, in quattro set, un doppio già vinto prima di iniziarlo, e era «la gente, allora, a mostrarsi molto sportiva, e a chiedere ai nostri “la vuelta”, un giro d’onore». Ma la Davis non era ancora finita. L’accoglienza al ritorno dei nostri non si sarebbe certo dimostrata entusiasta e Pietrangeli, lungi dall’essere deificato, sarebbe stato costretto a dormire nella sua casa dei Parioli con la Davis tra le braccia. Nessuno gliel’aveva chiesta.

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