joan jonas

ARTSPIA - TRA SOGNO E INCUBO, FILM E DANZA, FAVOLA E RITO, MINIMALISMO E VIRTUALE, PERDETEVI NEL BUIO DELL'HANGAR BICOCCA. QUELLA DI JOAN JONAS NON E' MOSTRA: E' UN TUFFO NELL'ARTE TOTALE (VIDEO E FOTO)

Immagine della mostraImmagine della mostra1976-1994-2005 Mirage - Anthology Film Archives 1976 1976-1994-2005 Mirage - Anthology Film Archives 1976

 

Alessandra Mammì per Dago-art

 

Per capire Joan Jonas bisogna tener presente due cose. Uno: è una scultrice e la scultura è base di tutta la sua formazione. Due: è New Yorkese e la Manhattan degli anni Settanta è la sua scuola di vita.

 

La scultura è il punto fermo che le permette di plasmare lo spazio con qualunque cosa le capiti fra le mani. Siano materie semplici, siano forze naturali. Una strumentazione che passa dal compensato con cui costruisce dispositivi per i suoi video (My new theater) alle folate di vento che schiaffeggiano Long Island e l'aiutano a deformare i corpi dei performer (Wind 1968)

 

Joan JonasJoan Jonas

La New York anni Settanta è quella che invece le ha permesso di contare su pensieri, aiuti, collaborazioni di menti eccellenti e tese verso la totale sperimentazione. Siano artisti coreografi musicisti hanno tutti nomi scolpiti nella storia:Richard Serra, Gordon Matta Clark, Steve Paxton, Trisha Brown, Philip Glass o Steve Reich. Tutti amici, tutti colleghi, tutti complici nella necessaria ricostruzione di un linguaggio, che passa attraverso immagini, parole e azioni. Il tempo è galantuomo tanto che la rivoluzione di allora diventa paradigma di oggi e non a caso in tempi di crisi profonda  quando ci si aggrappa a sicuresaggezze sarà proprio lei, grande madre di tutte le sperimentazioni,a rappresentare gli Stati Uniti alla prossima Biennale. 

 

Il terzo elemento che chiude la formazione di Joan Jonas (nata nel 1938) è il viaggio.

'immagine della mostra'immagine della mostra

Di viaggi fondamentali ne ha fatti soprattutto tre: il primo in Arizona nei primi anni Sessanta dove conosce gli indiani Hopi e assiste alla “danza del serpente” dove sacerdoti invasati ritualmente riunivano spirito e materia disegnando con il movimento virtuali anse sul terreno. Il secondo viaggio è a Creta dove si unisce alle inebrianti feste di un matrimonio che durerà ben tre giorni. Il terzo in Giappone dove compra la sua prima telecamera e scopre il teatro No.

 

Dall'unione di questi tre viaggi comincia il suo viaggio. Quello di Joan Jonas e il nostro nel buio dell' Hangar Bicocca che ospita la sua grande antologica "Light Time Tales” (Milano, fino al primo febbraio 2015). La prima mostra di queste dimensioni e probabilmente la più intensa. L'ha completamente allestita lei. Quindici giorni di lavoro con il curatore Andrea Lissoni, studiando centimetro dopo centimetro, suono accanto a suono. L'ha titolata lei trovando nelle parole “ luce-tempo-racconti” le chiavi d'accesso a questa caverna del tesoro.

 

 

Illuminati solo dalle luci vibranti degli schermi e persi in questo scuro abisso di cui si fatica a individuare i confini, all'inizio tutto sembra caos. Tra suoni che si rincorrono inanellando voci e strumenti, musiche e rumori; luci degli schermi che tremano; tra i colori acquerellati di un super8 riversato e il bianco e nero contrastato che si usava nei tempi d'oro della performance, all'inizio si è sperduti. Poi, guidati come in natura più dall'intuizione che dalla ragione, si trovano le linee guida che conducono da un'opera all'altra seguendo sentieri molto precisi.

 

 

 

Immagine della mostraImmagine della mostra

Li ha segnati lei con nessi logici ferrei e sassolini invisibili. Il video che a sinistra la vede canuta e buffa, vecchia signora imbellettata e mascherata che saltella fra le frasche di un bosco incantanto (Waltz 2003) è stato girato dieci anni fa, quello che brilla lontano in linea retta è invece il primo della sua vita.

 

“Beautiful Dog” del 2014 film festoso che nasce per questa mostra, è invece affidato al suo cane Ozu (nome non a caso) che in una lunga soggettiva saltella sulla sabbia con un telecamera appesa al collo e idealmente rimanda a “Barking” (1973) quell' austero video monocanale e minimalista dedicato al cane che abbaia e che troveremo più in là nel cammino.

 

Il sentiero si snoda fra strane connessioni e parentele. Ad ogni tappa Jonas racconta una storia. Alcune sono parabole, altre vere e proprie favole, altre ancora divagazioni che partono dal racconto e volano verso la filosofia e la storia.

 

C'è la storia del coniglio che si sacrifica per nutrire un dio atzeco e si getta nel fuoco. Ma il dio lo premia stampando la sua immagine sulla luna e rende il coniglio eterno agli occhi degli uomini. C'è la storia di Elena di Troia che secondo la poetessa imaginista Hilda Doolitlle paziente di Freud, in realtà a Troia non andò mai, tanto per dimostrare la gratuità di ogni guerra e l'inconsistenza di ogni “casus belli”; c'è poi una giovane splendida Tilda Swinton che interpreta un poema epico medievale irlandese e la sorpresa che ci aspetta nell'ultima tappa dove siamo sommersi e inglobati nell'opera.

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Perché Joan Jonas racconta con tutto e plasma tutto.L 'immersione totale nelle sue storie ci avvolge completamente partendo solo da immagini e suoni. “La sensazione nasce dove cambia la percezione” scriveva André Gide nelle “Nourritures Terrestres”.

 

E il nutrimento terrestre e celeste nel buio dell'Hangar ci porta verso un percorso cosmico dove Jonas si mette in gioco, raccontando non solo se stessa ma soprattutto la necessità dell'arte. A noi il dovere dell'esperienza e di raccogliere la testimonianza.

 

Perdersi in questa mostra è obbligatorio.

 

 

 

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