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KENTRIDGE ALL’OPERA – DOPO IL FREGIO MONUMENTALE SUL TEVERE, L’ARTISTA SUDAFRICANO TORNA A ROMA FIRMANDO LA REGIA E LE SCENE DI “LULU” DI BERG CHE DEBUTTERA’ ALL’OPERA IL 19 MAGGIO – 'IL MIO MURALES IMBRATTATO? È IMBARAZZANTE LAMENTARSI DEI GRAFFITI ALTRUI. ANCHE ‘TRIUMPH AND LAMENTS’ LO È…' - VIDEO

 

Stefano Pistolini per “il Venerdì - la Repubblica”

 

LULU kentridgeLULU kentridge

Il matrimonio tra Roma e l' artista William Kentridge, s' aveva da fare per un' attrazione rimasta a lungo in sospensione. Finalmente s' è celebrato l' anno scorso, nel compleanno della Città Eterna, il 21 aprile. L' occasione è stata l' inaugurazione del monumentale intervento di Kentridge su 500 metri di mura del Tevere, con una tecnica straordinaria di rimozione della pellicola biologica depositata sulla pietra, ideata dall' americana Kristin Jones.

 

Kentridge ha creato il capolavoro effimero Triumphs and Laments, storia di Roma per quadri monocromatici, dagli imperatori a Pasolini, dal Bernini al cadavere di Moro, condannata a sparire nel giro di pochi anni, quando lo sporco avrà di nuovo la meglio sulle figure. Celebrato l' evento, artista e città si sono separati: «Ho voluto dar seguito alla tradizione romana di un' arte pubblica accessibile a tutti, esposta per strada, in un tempo nel quale molta nuova arte è destinata alla fruizione privata e difficilmente accessibile» racconta adesso Kentridge, presentandosi con quell' immancabile camicia bianca che è il suo continuum stilistico. E subito procede con una dichiarazione d' affetto per Roma: «È una città di grande interesse, per com' è carica di storia, pur restando una metropoli perfettamente funzionante. Altre città italiane sono paralizzate dall' ingombro del patrimonio artistico. Invece, la combinazione di normalità ed eccezionalità rende Roma un luogo vivo. So che fatica a sentirsi davvero contemporanea, ma credo non sia facile, quando ci si porta dietro così tanto passato».

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Nel frattempo il fregio sul fiume ha fatto i conti con la vita insidiosa della street art, esposta alla mancanza di rispetto di chiunque la incroci, ad esempio i graffitari che hanno cominciato a utilizzare la stessa porzione di muro assegnata a Kentridge, creando un' alternanza impropria, eppure assai realistica. Ora che Kentridge è tornato nella città che tanto apprezza, si è fatto precedere da un' educata protesta per i maltrattamenti alla sua opera: «È imbarazzante lamentarsi dei graffiti altrui quando, nell' occasione, ciò che ho fatto io va ricondotto proprio ai graffiti. Trovo anche interessante che i nuovi graffiti siano stati fatti negli interstizi tra le mie figure, e non sopra di esse.

 

Però distinguo tra veri graffiti pittorici e i tag messi là da chi ha solo voglia di scrivere il proprio nome. Ovviamente comunque sono contento che abbiano ripulito il muro e che il mio intervento resti integro fin quando non scomparirà dalla vista, riassorbito dalla città stessa. Presto non ci sarà più, che in fondo è ciò che molta gente desidera guardando tante opere d' arte pubblica, condannate a restare ostinatamente al loro posto».

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A coronare la celebrazione del primo anniversario di Triumphs and Laments ci ha pensato un concerto del Coro dell' Opera di Roma. Una partecipazione non casuale, dal momento che il 19 maggio Kentridge presenterà qualcos' altro di cui godranno solo i romani, residenti o di passaggio: proprio al Teatro Costanzi va in scena Lulu di Alban Berg, una coproduzione col Met di New York e altri teatri europei dov' è già transitata, con la sua regia, la co-regia di Luc De Wit e la direzione d' orchestra di Alejo Pérez.

 

Lulu è la seconda opera scritta da Berg dopo il Wozzeck, basata con maestria su due testi teatrali di Frank Wedekind, Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora.

Berg muore prima di ultimare le musiche del terzo atto, e Lulu debutta incompiuta nel '37 a Zurigo, salvo venire completata negli anni 70 dal compositore austriaco Friedrich Cerha, universalmente lodato per la fedeltà alle intenzioni di Berg.

 

È di questa versione che Kentridge offre la propria rilettura: «Sono partito dal confronto tra il tema e il linguaggio formale da applicare nell' occasione. Ho scelto quello dei disegni a inchiostro e delle videoproiezioni, evocando il test di Rorschach e facendo correre l' inchiostro sulla carta come fosse sangue, il sangue dell' accoltellamento di Lulu nell' epilogo della storia. Questa è una vicenda intrisa di violenza, nella quale tutti muoiono drammaticamente: l' inchiostro mi è parso lo strumento giusto per descrivere questa furia carnale». Una decisione di cui è evidente la forza: le peripezie di Lulu sono radicate nell' Espressionismo e la veemenza del segno d' inchiostro nero evoca quell' impeto senza mediazioni, chiamando in causa Otto Dix, Max Beckmann e la prima trasposizione della Lulu di Wedekind, prim' ancora di Berg, nel gran film di Georg Wilhelm Pabst che lanciò la stella di Louise Brooks, nel '29, con quei leggendari capelli corvini a caschetto a cui, negli anni Sessanta, Guido Crepax ispirò la sua Valentina. «Un fattore importante» continua Kentridge durante una pausa delle prove «è l' utilizzo dei disegni, realizzati su fogli di carta di piccole dimensioni e poi associati tra loro, lavorando sulle mutazioni nelle figure che si generano manipolando i fogli e trattandoli come marionette».

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Riaffiora la prerogativa che rende unico Kentridge, un artista capace d' associare fattori espressivi poveri e artigianali, con l' edificazione di una visione filosofica sostanziale: «Lulu parla dell' instabilità del desiderio. Tutti i suoi amanti vogliono la stessa cosa e lei lo sa, li rifiuta e fugge via. È un' opera rivelatrice sulla natura delle ossessioni e di ciò che diventa così irresistibile da condurti alla follia. Spesso il desiderio non è eccitato dalla natura di una persona, ma dalla sua indifferenza.

Ciò che rende Lulu desiderabile per chiunque, è che lei sia completamente disinteressata a queste attenzioni».

L' elemento-chiave che dell' opera di Berg e del testo di Wedekind affascina Kentridge, va dunque oltre la rappresentazione del potere della femme fatale in una società misogina come quella austriaca di cento anni fa, ma sta piuttosto nel misterioso meccanismo d' attrazione e repulsione, sottomissione e bramosia, che regola le relazioni tra uomini e donne.

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Questioni cosmiche, che Kentridge contempla con la serenità dell' intellettuale illuminista, salvo poi distaccarsene d' improvviso, cominciando a parlarci della sua nuovissima iniziativa - che è una cosa piccola, locale, quasi umile, ma che l' appassiona quanto i capolavori del Novecento. C' è questo gusto a togliere, a scartare verso imprevedibili marginalità, nell' estetica di Kentridge.

Ad esempio, con il Centro per le idee meno buone, che egli stesso ha appena aperto a Johannesburg, la sua città. «È dedicato a musicisti, artisti e performer in genere» ci spiega con solennità. «Il concetto è di individuare significati ulteriori nel procedimento del creare. Quando dai vita a un progetto, cerchi la grande intuizione da seguire. Poi, quando cominci veramente a lavorare, ti spuntano in testa tutta un' altra serie di idee più piccole, periferiche, meno indispensabili. Si dice che un grande proposito debba essere il motore della vera opera d' arte, ma se prendiamo la Storia, queste grandi idee di partenza mi pare che si siano spesso rivelate un disastro. In Sudafrica abbiamo un proverbio: "Se il bravo dottore non è capace di curarti, trovane uno meno bravo". Perciò ho aperto questo posto, che riguarda l' importanza della marginalità. In pratica gli artisti avranno un luogo per lavorare, dove troveranno inaspettate possibilità di collaborazione con altri colleghi, magari di discipline diverse. E pensare che l' interazione inizialmente non era prevista».

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Un' iniziativa, di cui Kentridge apprezza soprattutto la modestia: «Non inviteremo gente da fuori. È per gli artisti locali. A Johannesburg tante importanti istituzioni stanno chiudendo e io voglio andare controcorrente, aprendone una, piccola e nuova». Perché è facile dimenticarsi che Kentridge, con quel suo approccio british, in effetti viene dal Sudafrica, che per noi è ancora un punto remoto del mondo: «Johnannesburg è un posto pieno di contraddizioni» conclude lui. «Ci convivono persone la cui scala di valori è perfettamente europea e altre provenienti da ogni angolo del continente nero. Il dibattito tra eredità coloniale ed espansione delle culture locali resta ancora una questione da chiarire.

C' è chi dice che nelle nostre scuole si debba smettere di studiare Shakespeare e chi lo ritiene indispensabile. Da noi sono tempi vivaci, ma molto difficili, soprattutto caratterizzati da una generalizzata insoddisfazione, per non dire insofferenza, verso la politica».

E ci lasciamo su questi ammiccamenti banali, ma pur sempre consolatori, condividendo la rassicurante constatazione che, in fondo, "tutto il mondo è paese".

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