nuova oggettivita

L’ANTEPRIMA DELLA DISPERAZIONE - PER VISITARE LA BIENNALE, PARTITE DALLA MOSTRA "NUOVA OGGETTIVITÀ" SULL'ARTE TEDESCA AI TEMPI DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR: È L'ANTEPRIMA NOVECENTESCA DELLA CONTEMPORANEA DISPERAZIONE, DISEGUAGLIANZA E SOLITUDINE

Pierluigi Panza per “La Lettura - il Corriere della Sera

 

nuova oggettivitanuova oggettivita

Per visitare con un occhio allenato e consapevole la Biennale 2015 e le altre mostre che colorano in questi mesi la città di Venezia, un buon punto di partenza è offerto dalla mostra Nuova Oggettività. Arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimar. 1919–1933 al Museo Correr (fino al 30 agosto). Perché questa mostra — a cura di Stephanie Barron con Gabriella Belli dei Musei Civici, in collaborazione con il Los Angeles County Museum of Art — è un buon punto di partenza? Perché può essere letta come l’anteprima novecentesca di molta contemporanea disperazione, diseguaglianza e solitudine esibita da tanti artisti contemporanei, come Tetsumi Kudo che espone a Punta della Dogana nella rassegna Slip of the tongue , come Liu Xiaodong che espone in Painting as shooting alla Fondazione Cini o come molti dei protagonisti della rassegna All the world’s futures curata da Enwezor all’Arsenale. 

george grosz ritratto dottor felix j weil 1926 258george grosz ritratto dottor felix j weil 1926 258


Le centoquaranta opere tra dipinti, fotografie, disegni e incisioni di quarantatré artisti che compongono la mostra Nuova Oggettività , oltre ad essere poco conosciute sia in Italia che negli Stati Uniti (dove la mostra sarà esposta) paiono esibire nella carne dei personaggi raffigurati le condizioni che portarono alla grande tragedia europea del Novecento; condizioni non così dissimili da alcune di oggi. La Neue Sachlichkeit («Nuova Oggettività») prende il nome dall’omonima mostra che si svolse nel 1925 alla Kunsthalle di Mannheim in cui esponevano pittori che volevano superare l’Espressionismo con uno stile inizialmente definito realista.

 

christian schadchristian schad

Si sviluppò nei quattordici anni della Repubblica di Weimar (1919-1933), quando gli artisti tedeschi si confrontano con le devastanti conseguenze socio-economiche della crisi seguita alla Prima guerra mondiale, con il troppo rapido processo di modernizzazione e urbanizzazione che mutò il volto della società tedesca, con la piaga della disoccupazione e la disperazione, nonché con i primi mutamenti delle identità di genere. 
 


Da un lato questa modernizzazione diventa laboratorio di esperienze antiartistiche, come quella dei dadaisti, o produce la dissoluzione dell’architettura classica in favore del modernismo Bauhaus. Dall’altra — come raccontano le pennellate di Otto Dix, George Grosz, Christian Schad, August Sander, Max Beckmann, Hans Finsler, Georg Schrimpf, Heinrich Maria Davringhausen e Aenne Biermann — spinge a fissare sulla tela i primi solchi di disperazione, i primi detriti della società moderna, un’epica dei travolti e degli sconfitti. 

august sanderaugust sander


Il realismo della Nuova Oggettività è oggi considerabile un equivoco. Se uno osserva Haus Nr. 9 di Anton Räderscheidt non vi trova, forse, la stessa solitudine che si ritroverà in Edward Hopper? E gli Schachspieler («Giocatori di scacchi») di Jeanne Mammen, aguzzini pronti a spartirsi un Paese, non sono forse una tappa intermedia di quella genealogia del male, che va dai volti sdentati della Salita al Calvario di Hieronymus Bosch alle caricature dei potenti della Terra ridicolizzati in tante Documenta e Biennali? E i ritratti di Otto Dix e di Max Beckmann non annunciano, forse, le dissoluzioni dell’individuo moderno, proseguite con Magritte e denunciate nella filosofia della «morte dell’uomo» di Michel Foucault? Ma al di là della costruzione di genealogie, quel che più importa è che in queste tele c’è molto di ciò che siamo e di ciò che oggi vediamo.

 

davringhausendavringhausen

Ci sono i ritratti e le foto dei primi transgender, ci sono i baci lesbici (anche se Il sonno di Courbet arriva prima, nel 1866), ci sono gli operai-schiavi e le facce da maiale in cerca di prostitute. C’è pure il bdsm (acronimo che sta per bondage) nell’ Incontro di feticisti e maniaci di Rudolf Schlichter, una pratica del resto raccontata proprio in quegli anni (1925-26) da Arthur Schnitzler in Doppio sogno , il racconto portato sul grande schermo da Stanley Kubrick nel ’99 con il titolo Eyes Wide Shut . 


Tutti loro, tutti questi personaggi, grazie alla capacità della simbolizzazione estetica, bussano alla nostra anima di osservatori e vi si fissano a contrario del fragile profluvio di immagini tragiche che circolano nella rete ogni giorno. Si fissano, e ci portano pure a riflettere sull’inutilità di tanta contemporanea arte di denuncia, una retroguardia rispetto a questa avanguardia. Valgono più questi volti scavati che non incrociano mai gli sguardi tra di loro e osservano gelidi il visitatore oltre la tela, che le performance di body-art. È la totale mancanza di empatia di questi personaggi l’aspetto che più colpisce l’osservatore. Sono i profeti dell’avvento di un nichilismo permeato di solitudine. Non ce n’è uno che ti parli, manco gli Ubriachi di Paul Kleinschmidt! A uno che passa di fronte verrebbe da chiedere loro: su, diteci cosa vi ha colpiti?

 

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Che male vi hanno fatto? Quale destino ci riserva il futuro? E quelli zitti, sempre zitti. Anzi, pur di non parlare, si fanno tagliare la testa come in Eclissi di sole di George Grosz. È possibile che nemmeno Il disoccupato di Otto Griebel protesti? E tu, tu, mutilato senza una gamba che chiedi la carità all’angolo, nemmeno tu gestante, che ti volti dall’altra parte, avete qualcosa da dire? E voi, vecchi genitori, almeno voi, diteci una parola del passato. Niente. L’unica cosa che viene in mente scuotendo questi personaggi è quel passo da La sepoltura dei morti di T. S. Eliot: «Figlio dell’uomo,/ Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto/ un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole». 

Eppure è in questa calma che si annida il caos, s’insinua la denuncia che poi portò a Hitler — perché a briganti, la storia risponde con brigante e mezzo. Il disegno Il signor Stresemann e un pezzo di pane nero (1932) di Karl Hubbuch denuncia la subalternità della stampa alla grande finanza e l’incapacità dei politici di gestire in maniera adeguata l’inflazione galoppante ricorrendo alla satira, alla distorsione, al grottesco: sono le categorie dell’ Estetica del brutto di Karl Rosenkranz che ritroviamo anche oggi nelle vignette e nella satira. In questi ritratti sono tutti muti come oggetti: sono i segni che portano con sé (un compasso, un libro) o il movimento delle mani a segnalarci la loro appartenenza, uno straccio di messaggio. Ma loro sono oggetti e, con il loro finto realismo, annunciano la tragedia dell’uomo moderno che stava per consumarsi e si consuma ancora. 

otto dixotto dixgeorge groszgeorge grosz

 

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