CONCITTADINO MIO, COME E’ BELLO MANDARTI IN B - IL POKERISSIMO DI DERBY CHE GIA’ INFIAMMA IL CAMPIONATO

Gabriele Romagnoli per La Repubblica

Inizia un campionato senza precedenti. Poi magari la classifica finale sarà la stessa dell'anno scorso, ma per arrivarci bisognerà aver battuto strade inedite, che passano attorno a un numero spropositato di campanili: cinque. Mai prima di questo 2013-14 c'erano state due squadre di cinque città (Roma, Milano, Torino, Genova e, ultima, Verona). Metà delle partecipanti (10 su 20) sono imparentate tra loro e disputeranno dieci derby.

Suggestivo. E terrificante. Il derby è il massimo della sfida e il minimo della civiltà. Da nord a sud, e se esistesse anche nelle isole, è un assist per il lato peggiore della natura (dis) umana. Dirò subito che il concetto si estende oltre i confini degli stadi e nel farlo rivela che il popolo italiano è non solo inadatto a qualsiasi forma di bipolarismo ma, se indotto, la vive malamente, spegnendo l'interruttore del cervello e dando un significato nuovo e peggiorativo all'orrenda parola manicheismo.

Più ancora che il sonno della ragione è il derby a generare mostri. Produrre ferite. Indurre sensazioni di non troppo leggera follia. Partiamo dall'ultimo, talmente memorabile che non sarà dimenticato per almeno due generazioni. La sfida tra Roma e Lazio nella finale
di Coppa Italia ha causato un trauma tale in una parte della tifoseria che ha avuto il solo
pregio di cancellare quello legato all'impronunciabile parola Liverpool.

Per il resto rimarrà lì, indelebile giacché le probabilità di una finale bis sono più nulle che remote e, anche se avvenisse, chiedete ai milanisti se rincontrare e battere (appunto) il Liverpool ha davvero annullato la sofferenza dello 0 a 3 rimontato. L'ultimo derby ha distrutto la tardiva carriera di un onest'uomo come Andreazzoli, spalancato le già dischiuse porte dell'inferno a Osvaldo, santificato Lulic, imposto un parametro perenne come una pietra miliare lungo una via consolare: "Sì, però noi abbiamo vinto il derby di Coppa". La madre di tutte le partite.

Ma anche i derby minori hanno sempre regalato momenti da dimenticare: morti in curva, feriti fuori dallo stadio, falsi allarmi su vittime inesistenti, assetti da guerriglia e, dal lato ridicolo che sempre accompagna il tragico, allenatori che si tuffano nel fontanone o evocano l'elegante goduria del riccio, capitani che si trasformano in lassativi, difensori che entrano in analisi. Paolo Negro, reo di autorete con maglia laziale, ripassò anni dopo a segnare nella porta giusta, ma giocando nel Siena, e chiedetegli se gli è passata.

Fosse solo Roma. La compassata Milano diede il peggio di sé quando, in risposta al campionato vinto dall'Inter, il Milan andò a prendersi la Champions e sul carro dei vincitori i suoi spiegarono ai rivali dove mettersi lo scudetto. Conquistare l'Europa per essere primi a Milano: si può essere più miopi di così? Andate a un qualunque delle attuali, decadute stracittadine e assistete allo spettacolo. Non in campo, dove latita, ma sugli spalti: è un susseguirsi di striscioni con messaggi in codice da una curva all'altra. Dopodiché, distratto, l'occhio cade pure sulla partita.

Genova è meglio? Come no. Chiedete a un genoano quale sia stata la più grande soddisfazione di questi anni di magra, tra partite interrotte e presidenti col daspo. Vi ricorderà il luminoso pomeriggio in cui battendo la Sampdoria la sospinsero in serie B. Segnò il gol decisivo l'argentino Boselli, mai apparso sui monitor né prima né dopo, deus ex machina di una cosmogonia da tifo stracittadino che invoca sulla scena decisiva angeli e demoni e con entrambi è disponibile a patti. Il derby di Torino è da decenni meno ferale per via del divario tra le due squadre.

Lo ammorbano il sadismo juventino che sogna il successo al 91° per un rigore inesistente e il masochismo granata che invoca lo stesso epilogo. Verona, acerba e impreparata all'esplosione del Chievo, va cercando una sua interpretazione della tragicommedia, ma di sicuro la troverà, perché è vocazione popolare riuscirci.

L'Italia è per definizione campanilistica, ma intorno al campanile dà il peggio di sé. Guarda che cosa è capitato quando nella politica si è passati dal proporzionale al maggioritario, dal politeismo al biteismo imperfetto: vent'anni di derby tra berlusconiani e antiberlusconiani condotti con la stessa lucidità argomentativa con la quale si affrontano laziali e romanisti.

Anche un rigore negato sullo 0 a 3 fa dire che la partita è stata falsata, la classe arbitrale corrotta, esiste un complotto, un oscuro disegno dei poteri forti. Non ci sono vittorie limpide, ma soltanto brogli. E se quelli proprio non lasciano traccia subentra un cupio dissolvi nelle forme banali e ridicole di un tafazzismo sfrenato. Quando Guareschi inventava Peppone e Don Camillo edulcorava un'Italia stonata dove ogni confronto sul pianerottolo è una potenziale strage di Erba, ogni lite in famiglia una miccia di Avetrana.

Un campionato con cinque derby è una rosa con cinque spine. Specialmente se le milanesi e le romane si trovassero fuori dalla lotta scudetto. Ma anche se invece combattessero per vincerlo lo farebbero per sbatterlo in faccia all'altra mezza città, vendicare una coppetta, ribadire una complessata superiorità, essere primi dove meno conta: a casa propria.

 

 

 

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