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L’ARTE DELLA PROTESTA - A LONDRA C’E’ LA STREPITOSA MOSTRA “DISOBEDIENT OBJECTS”: TAZZE, BAMBOLE, COPERCHI, OGGETTI DOMESTICI DIVENTATI STRUMENTI DI ‘’DISUBBIDIENZA SOCIALE’’ DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI

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Un’elegante tazza da tè inglese del 1910 e un coperchio di pentola in metallo, argentino, del 2001. Divisi da quasi cent’anni e da migliaia di chilometri, questi due oggetti non sono solo uniti dalle rispettive funzioni domestiche.

 

Entrambi sono stati strumenti del mutamento sociale: il primo ha avuto una parte nella campagna britannica per il voto alle donne, l’altro era tra gli improvvisati strumenti di protesta dei cittadini argentini che cacciarono quattro presidenti in tre settimane. Sono anche i primi dei novantanove oggetti esposti a “Disobedient Objects”, la mostra del “Victoria and Albert Museum” dedicata alla cultura materiale dei movimenti sociali dagli anni Settanta a oggi.

 

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“Disobedient Objects”, a cura di Catherine Flood e Gavin Grindon, pare fuori posto nel rarefatto contesto del “V&A”, le cui altre mostre in corso sfoggiano abiti da sposa e stilisti italiani. A parte la tazza da tè, di gran lunga il pezzo più antico della mostra, nessuno degli oggetti appartiene al museo e nessuno è ospitato in altre collezioni. Non si tratta di preziose e tutelate opere di abili artigiani o di designer orientati al mercato, ma di artefatti anonimi o realizzati da dilettanti, adottati da gruppi militanti di ogni parte del mondo.

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In realtà “Disobedient Objects” si colloca accanto un’altra recente iniziativa del “V&A”: la strategia del “Rapid Response Collecting”, dedicata alla veloce raccolta di oggetti in relazione con questioni sociali, dalla pistola realizzata da Cody Wilson con la stampante tridimensionale alle ciglia finte prodotte in spregio dell’etica. Messe insieme queste due innovazioni testimoniano una meritoria assunzione di responsabilità sociale in un mondo irresponsabile.

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In “Disobedient Objects”, a ingresso libero, si respira ovunque un’aria di inclusione sociale. L’allestimento, progettato da Jonathan Barnbrook, è un appropriato misto di impalcature di tubi e ripiani di truciolare. Barnbrook ha progettato interamente anche la grafica, comprese le due serie di etichette codificate dal colore: grigie per le parole dei curatori e gialle per il punto di vista dei produttori. Insieme sono d’aiuto a correggere l’inevitabile isterilimento connesso con il trasferimento degli oggetti dal contesto popolare ‘dal vivo’ all’asettico spazio del museo.

 

Procedendo oltre la piccola sezione introduttiva, il resto della mostra è suddiviso in cinque sezioni. Le prime quattro rappresentano tipi differenti di strategia per il cambiamento sociale. “Machina Worlds” (“Creare mondi”) sottolinea l’importanza del pragmatismo e dell’intuizione: presenta una varietà di colpi di genio di ogni parte del mondo, dalle maschere antigas fatte con le bottiglie di plastica al parco Gezi di Istanbul, nel 2013, fino ai segnali indicatori di “Occupy Sandy”, la mobilitazione d’emergenza sbocciata a New York dopo l’uragano Sandy del 2012 in assenza di sufficienti aiuti da parte delle istituzioni. “Speaking Out” (“Parlar chiaro”) accosta analogamente le iniziative popolari alle manchevolezze della cosa pubblica.

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Comprende cartelloni del 2012 fatti a mano con l’arcobaleno LGBT, che proclamano “Non lo daremo a Putin per la terza volta”. Anche in “Direct Action” (“Azione diretta”) compaiono temi di umorismo sovversivo, come i massi gonfiabili di “Tools for Action”, che costringono la polizia a un rapporto ludico con i manifestanti. “Solidarity” (“Solidarietà”) sottolinea questo tema comunitario dedicandosi agli oggetti usati per creare consenso intorno agli obiettivi e comunicarli, come i quadrati rossi indossati dai manifestanti nel 2012 contro l’aumento delle tasse universitarie canadesi, campagna resa più popolare grazie a un abile uso dei social media.

 

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La sezione finale – “A Multitude of Struggle” (“Una moltitudine in lotta”) – presenta vari gruppi di militanti e movimenti di protesta di ogni parte del mondo. Qui, come in tutta la mostra, è forte l’accento sulla manualità: dalle “arpilleras” realizzate per la prima volta sotto la dittatura di Pinochet in Cile al “Tlki Love Truck”, un veicolo personalizzato decorato dall’‘artigiana militante’ britannica Carrie Reichardt per protestare contro la pena di morte in Texas nel 2007.

 

Ci sono esempi di protesta digitale, come “Phone Story” (“Storia del telefono”), gioco gratuito creato dal gruppo italiano Molleindustria nel 2011, che svela al giocatore le contraddizioni etiche della produzione del telefono che ha in mano, che venne eliminato solo quattro giorni dopo essere stato reso disponibile su “iTunes”. “Phone Story” è comunque un’eccezione in una mostra in gran parte fatta a mano, mentre sarebbero state auspicabili una maggior attenzione al digitale e una miglior articolazione dell’incidenza dei social media e di altre nuove tecnologie.

 

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L’assenza di cronologia identificabile e del senso del cambiamento storico sono tra le poche critiche che posso fare a “Disobedient Objects”. Anche se la struttura tematica e la mancanza di un percorso definito fanno chiaramente parte dello spirito democratico e pluralista della mostra, sarebbe stato utile poter osservare più esplicitamente come i punti di vista, le comunità e le questioni affrontate dai movimenti sociali siano cambiati nel tempo, dagli anni Settanta e ancor prima.

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Tra le strategie presentate ci sono anche parecchie intersezioni, il che contribuisce a rendere caotica l’atmosfera della mostra. Tuttavia i curatori hanno dato vita a un’esposizione interessante e degna d’essere ricordata, che vale la pena di visitare, e il loro lavoro non è ancora finito: in “Disobedient Objects” c’è spazio per un centesimo pezzo, l’artefatto di una protesta futura e ancora sconosciuta, benché, nei nostri tempi turbolenti, inevitabile.

 

 

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