DEBENEDETTATA - L'ING. TRASFORMA IL SUO FONDO SALVA IMPRESE (CHE NON HA MAI SALVATO NIENTE) IN UN FONDO PRIVATE EQUITY E I SOCI DI MANAGEMENT & CAPITALI S'INCAZZANO: NON CONTANO UN TUBO, TUTTO E' IN MANO A CARLETTO.
Paolo Madron per "Il Sole 24 Ore"
Cosa succede se un fondo salva imprese si trasforma d'emblée in un fondo di private equity? Che a qualcuno, magari senza darlo troppo a intendere, salta la mosca al naso. Se poi il fondo in questione, Management & Capitali, ha un presidente dal nome altisonante, Carlo De Benedetti, e qualche altro socio che con lui vanta una lunga storia di rapporti e amicizia, come Giorgio Magnoni o Peter Cohen, allora si tratta di una vivace e per certi versi sorprendente discussione in famiglia. Quelle dei Magnoni (nella realizzazione del progetto era coinvolta anche la Lehman Brothers del fratello Ruggero) e dei De Benedetti, per inciso, vantano una lunga e plurigenerazionale frequentazione.
I fatti. Con il recente ingresso di Giovanni Tamburi nella blasonata compagine di M&C come secondo azionista, e il conseguente patto di sindacato stretto con il primo, ovvero l'Ingegnere, l'oggetto sociale dell'impresa ha subito una metamorfosi. Totale, secondo chi la contesta. Molto limitata, a sentire chi, manager del fondo compresi, la difende. Magnoni e la sua Sopaf, dopo aver premesso che non ne fanno una questione esiziale, dicono però che «un conto è essere chiamati ad entrare in un fondo salva imprese, un altro in uno che più o meno fa il tuo stesso mestiere».
Insomma, si è trattato di un repentino cambio di carte in tavola che ha colto tutti di sorpresa con l'aggiunta, spiega sempre Magnoni, «di un inopinato abbandono della governance duale per tornare a un più tradizionale monistico, cosa che sancisce di fatto un vero è proprio cambio di proprietà ». Fuor di metafora, se prima era un insieme variegato di soci più o meno tutti sullo stesso piano, ora con l'arrivo del nuovo si crea un asse di comando predominante.
Che fare allora? Abbozzare fingendo che sia tutto come prima, o armarsi in vista della prossima assemblea di maggio dove gli scontenti potranno esercitare il diritto di recesso dal quale però, vista la burrasca che sta flagellando da mesi le Borse, non possono certo pensare di uscire guadagnandoci?
Storia strana e tribolata sin dalla sua fondazione quella di M&C. All'inizio doveva essere in finanza il prototipo delle larghe intese in politica, visto che era imperniato sulla clamorosa alleanza tra De Benedetti e Silvio Berlusconi. Incontratisi nel 2005, dopo «16 anni che non si parlavano» precisò l'Ingegnere, e dopo essersi detti l'un l'altro di aver fatto i migliori affari quando al Governo c'era la parte avversa, ai due nemici di tante battaglie era balenata l'idea del mega fondo salva imprese.
Con loro, a testimoniare la solennità dell'iniziativa, ci doveva essere anche la crema dell'imprenditoria italiana più qualche grande fondo internazionale, giusto per mettere insieme 500 milioni di euro buoni ad alimentare ambizioni e aspettative. Come si ricorderà, i due promessi sposi non arrivarono neanche lontanamente all'altare per la scandalizzata protesta di quanti gridarono all'insano connubio.De Benedetti, presa carta e penna, nell'agosto del 2005 fu costretto a scrivere una lettera aperta ai lettori di Repubblica, e con loro «al caro Eugenio (Scalfari) e al caro Ezio (Mauro)» spiegando che di fronte al moto di indignazione collettiva - perché anche nella ex Casa delle libertà ci fu chi risentito biasimò il Cavaliere - non se ne sarebbe fatto nulla.
Le polemiche finirono lì per poi riprendere, dopo qualche mese, di fronte alla sproporzione tra gli strombazzati intenti che avevano accompagnato la nascita del fondo e i modesti investimenti realizzati sul campo. Uno nella disastrata Comital, seguito da una flebile manifestazione di interesse per la privatizzazione di Alitalia durata lo spazio di un mattino infine, ed è storia recente, le obbligazioni convertibili di Tiscali.
Ironia della sorte, quando i mercati andavano a gonfie vele i soci, specie gli internazionali, da Goldman Sachs a Cerberus, da Schroder a Sal. Oppenheim, stavano a mugugnare per la flemma di un management da cui, complice anche un discreto battage mediatico, si aspettavano fuoco e fiamme. Invece, un volta caduti nella morsa dei subprime, tutti a spellarsi le mani elogiando la sana prudenza di chi, diffidando, aveva conservato in cassa oltre 400 milioni di euro, sui cui destini si è molto strologato.
Qualcuno degli azionisti aveva pensato di sciogliere la società e spartirseli. Qualcun altro aveva invitato a prendere in considerazione le offerte che venivano dall'esterno, targate Gerardo Braggiotti (Banca Leonardo) e Vincenzo Manes (Intek). Qualcun altro ancora, come De Benedetti, che invece di parlare approfittava lesto della crisi dei listini, e comprava cassa aumentando la sua partecipazione.
Ora Magnoni e Cohen - ma è un processo alle intenzioni che può essere corroborato solo da date e circostanze in cui si è realizzata la compravendita di azioni che ha portato al rafforzamento dell'Ingegnere e all'ingresso di Tamburi - oltre alla metamorfosi dell'oggetto sociale eccepiscono anche sul fatto che il sostanziale controllo del gruppo sarebbe passato di mano a un prezzo di Borsa di almeno un 30% inferiore rispetto a quello pagato inizialmente da tutti i soci. Dicendosi sicuri che, all'assemblea di maggio, non saranno come mosche bianche i soli a chieder spiegazioni.
Dagospia 13 Marzo 2008
Cosa succede se un fondo salva imprese si trasforma d'emblée in un fondo di private equity? Che a qualcuno, magari senza darlo troppo a intendere, salta la mosca al naso. Se poi il fondo in questione, Management & Capitali, ha un presidente dal nome altisonante, Carlo De Benedetti, e qualche altro socio che con lui vanta una lunga storia di rapporti e amicizia, come Giorgio Magnoni o Peter Cohen, allora si tratta di una vivace e per certi versi sorprendente discussione in famiglia. Quelle dei Magnoni (nella realizzazione del progetto era coinvolta anche la Lehman Brothers del fratello Ruggero) e dei De Benedetti, per inciso, vantano una lunga e plurigenerazionale frequentazione.
I fatti. Con il recente ingresso di Giovanni Tamburi nella blasonata compagine di M&C come secondo azionista, e il conseguente patto di sindacato stretto con il primo, ovvero l'Ingegnere, l'oggetto sociale dell'impresa ha subito una metamorfosi. Totale, secondo chi la contesta. Molto limitata, a sentire chi, manager del fondo compresi, la difende. Magnoni e la sua Sopaf, dopo aver premesso che non ne fanno una questione esiziale, dicono però che «un conto è essere chiamati ad entrare in un fondo salva imprese, un altro in uno che più o meno fa il tuo stesso mestiere».
Insomma, si è trattato di un repentino cambio di carte in tavola che ha colto tutti di sorpresa con l'aggiunta, spiega sempre Magnoni, «di un inopinato abbandono della governance duale per tornare a un più tradizionale monistico, cosa che sancisce di fatto un vero è proprio cambio di proprietà ». Fuor di metafora, se prima era un insieme variegato di soci più o meno tutti sullo stesso piano, ora con l'arrivo del nuovo si crea un asse di comando predominante.
Che fare allora? Abbozzare fingendo che sia tutto come prima, o armarsi in vista della prossima assemblea di maggio dove gli scontenti potranno esercitare il diritto di recesso dal quale però, vista la burrasca che sta flagellando da mesi le Borse, non possono certo pensare di uscire guadagnandoci?
Storia strana e tribolata sin dalla sua fondazione quella di M&C. All'inizio doveva essere in finanza il prototipo delle larghe intese in politica, visto che era imperniato sulla clamorosa alleanza tra De Benedetti e Silvio Berlusconi. Incontratisi nel 2005, dopo «16 anni che non si parlavano» precisò l'Ingegnere, e dopo essersi detti l'un l'altro di aver fatto i migliori affari quando al Governo c'era la parte avversa, ai due nemici di tante battaglie era balenata l'idea del mega fondo salva imprese.
Con loro, a testimoniare la solennità dell'iniziativa, ci doveva essere anche la crema dell'imprenditoria italiana più qualche grande fondo internazionale, giusto per mettere insieme 500 milioni di euro buoni ad alimentare ambizioni e aspettative. Come si ricorderà, i due promessi sposi non arrivarono neanche lontanamente all'altare per la scandalizzata protesta di quanti gridarono all'insano connubio.De Benedetti, presa carta e penna, nell'agosto del 2005 fu costretto a scrivere una lettera aperta ai lettori di Repubblica, e con loro «al caro Eugenio (Scalfari) e al caro Ezio (Mauro)» spiegando che di fronte al moto di indignazione collettiva - perché anche nella ex Casa delle libertà ci fu chi risentito biasimò il Cavaliere - non se ne sarebbe fatto nulla.
Le polemiche finirono lì per poi riprendere, dopo qualche mese, di fronte alla sproporzione tra gli strombazzati intenti che avevano accompagnato la nascita del fondo e i modesti investimenti realizzati sul campo. Uno nella disastrata Comital, seguito da una flebile manifestazione di interesse per la privatizzazione di Alitalia durata lo spazio di un mattino infine, ed è storia recente, le obbligazioni convertibili di Tiscali.
Ironia della sorte, quando i mercati andavano a gonfie vele i soci, specie gli internazionali, da Goldman Sachs a Cerberus, da Schroder a Sal. Oppenheim, stavano a mugugnare per la flemma di un management da cui, complice anche un discreto battage mediatico, si aspettavano fuoco e fiamme. Invece, un volta caduti nella morsa dei subprime, tutti a spellarsi le mani elogiando la sana prudenza di chi, diffidando, aveva conservato in cassa oltre 400 milioni di euro, sui cui destini si è molto strologato.
Qualcuno degli azionisti aveva pensato di sciogliere la società e spartirseli. Qualcun altro aveva invitato a prendere in considerazione le offerte che venivano dall'esterno, targate Gerardo Braggiotti (Banca Leonardo) e Vincenzo Manes (Intek). Qualcun altro ancora, come De Benedetti, che invece di parlare approfittava lesto della crisi dei listini, e comprava cassa aumentando la sua partecipazione.
Ora Magnoni e Cohen - ma è un processo alle intenzioni che può essere corroborato solo da date e circostanze in cui si è realizzata la compravendita di azioni che ha portato al rafforzamento dell'Ingegnere e all'ingresso di Tamburi - oltre alla metamorfosi dell'oggetto sociale eccepiscono anche sul fatto che il sostanziale controllo del gruppo sarebbe passato di mano a un prezzo di Borsa di almeno un 30% inferiore rispetto a quello pagato inizialmente da tutti i soci. Dicendosi sicuri che, all'assemblea di maggio, non saranno come mosche bianche i soli a chieder spiegazioni.
Dagospia 13 Marzo 2008