SECONDO BILL EMMOTT LA DOMANDA CHE AFFLIGGE TUTTO IL MONDO E’: “PERCHE’ GLI ITALIANI DETESTANO MARCHIONNE?” - IN ATTESA DELLE RISPOSTE DEGLI OPERAI DI POMIGLIANO, ECCO QUELLA DELLO STESSO BILL: “LA VERITA’ E’ CHE AGLI ITALIANI NON INTERESSA VERAMENTE LA CRESCITA ECONOMICA” - IL CASO DELLA BRITISH GAS, CHE HA ABBANDONATO L’IDEA DI UN IMPIANTO A BRINDISI DOPO AVER ATTESO INVANO PER 11 ANNI I PERMESSI…

Bill Emmott per l'Espresso (traduzione di Guiomar Parada)

La principale domanda che gli investitori stranieri hanno posto per un decennio agli osservatori autonominatisi, come me, interpreti dell'Italia verso il resto del mondo è stata: «Perché gli italiani continuano a votare per Silvio Berlusconi?». Rispondere a questa domanda, ora superata, era in ogni caso molto più semplice che rispondere alla domanda che pongono ora.

L'attuale quesito è un vero rompicapo, oltre ad avere una rilevanza molto maggiore sia per il futuro dell'Italia sia per quello dell'euro. La domanda che gli investitori stranieri si pongono ora è: perché Sergio Marchionne, che a Detroit è considerato un eroe, è così detestato in Italia?

Gli italiani potrebbero stupirsi apprendendo che si tratta di una domanda frequente quanto importante, nonostante l'amministratore delegato della Fiat sia meno presente che nel passato nella stampa nazionale e i problemi che Marchionne sta affrontando a causa del calo delle vendite di automobili in Europa siano comuni a tutte le case automobilistiche. Molti rifiuteranno di rispondere nel merito commentando che gli americani sono i soliti ciechi sostenitori del mondo degli affari, diversamente dai saggi europei.

Il quesito mi si è riproposto ora innanzitutto perché, a seguito della pubblicazione nel Regno Unito e negli Stati Uniti di un mio nuovo libro sull'Italia ("Good Italy, Bad Italy" - La buona Italia, la cattiva Italia), tra le molte domande che mi sono state poste in relazione all'Italia e al suo futuro nell'euro, quella su Marchionne è stata tra le più frequenti - e non solo nel caso del pubblico americano, ma anche di quello tedesco.

Il secondo motivo è che ho da poco finito di girare un documentario sulla crisi italiana, che sarà messo in onda in autunno e che include un'intervista a Marchionne. La critica più comune espressa da autorevoli italiani dopo aver visto i montaggi provvisori è stata: «Perché avete incluso tanto materiale su un uomo detestabile come Marchionne? Perché non siete stati più critici sul suo operato?».

Parte di questa animosità può essere il risultato ovvio dell'alto profilo che l'amministratore delegato della Fiat ha tenuto fino a non molto tempo fa. Quanti tedeschi conoscono il nome degli amministratori delegati della Volkswagen o della Bmw? Qualcuno indubbiamente, ma non tantissimi. Nel suo caso, la barba, l'accento canadese e la preferenza per i maglioni rispetto alla classica giacca e cravatta lo hanno probabilmente reso un personaggio più noto di quanto sarebbe stato opportuno.

Quale che sia il motivo, e so bene che la questione della Fiat presenta molte sfaccettature, il fatto che Marchionne sia così detestato sorprende e porta gli osservatori e gli investitori stranieri a ritenerlo importante. Poiché gli italiani non si stancano di ribadire la bontà del loro settore manifatturiero - "l'Italia è la seconda potenza manifatturiera dopo la Germania" - e l'eccezionalità del made in Italy, sorprende che tanti italiani abbiano una opinione così negativa sull'uomo che guida una delle aziende manifatturiere più importanti e più antiche del paese.

E più strano ancora appare il fatto che questo grande paese manifatturiero produca in un anno meno automobili del Regno Unito. Le contraddizioni esistono ovviamente in molti paesi. Nel Regno Unito, di cui sono cittadino, se ne è palesata una spettacolare: un anno fa era sui titoli dei giornali di tutto il mondo per le rivolte e i saccheggi nelle piazze, mentre ora, esattamente nell'anniversario di quei disordini, il paese spicca per aver ospitato dei Giochi Olimpici gioiosi e di grande spirito comunitario. Un controsenso che non riesco a spiegare.

La contraddizione italiana, tuttavia, ha un peso molto maggiore. Il principale problema per cui si parla dell'Italia è ovviamente il debito, circa 2 mila miliardi di euro, il terzo più grande del mondo per ammontare. Il nodo reale non è però il debito pubblico del paese, bensì l'assenza di crescita economica.

A osservare la situazione da vicino e, credetemi, i tedeschi la stanno osservando da molto vicino, si comprende che il premier Mario Monti ha ragione quando dice che sul fronte della politica fiscale, l'Italia non è la Grecia, né l'Irlanda, né la Spagna. L'Italia non nasconde peccati fiscali. È un paese virtuoso e lo è stato fin dalla metà degli anni Novanta.

Per valutare la Grecia, gli investitori stranieri si chiedono se Atene sarà in grado di onorare gli impegni presi in materia fiscale e di avere le carte in regola per chiedere la prossima tranche di aiuti per salvare il paese. Per valutare la Spagna si chiedono se sussista il rischio che la sofferenza nel sistema bancario spagnolo si estenda sempre di più e che il mercato immobiliare continui sulla sua china discendente. E come nel caso dell'Irlanda, sanno bene che la rapida crescita economica degli ultimi quindici anni in questi due paesi è stata artificiale.

Quando valutano l'Italia, agli investitori viene in mente innanzitutto ovviamente il debito pubblico a livello del 120 per cento del Pil, una misura nella quale l'Italia supera solo la Grecia. Poi però prendono in considerazione il fatto che la crescita italiana nell'ultimo decennio non è stata artificiale né alimentata dal debito e che le famiglie italiane non hanno accumulato debiti folli. Si arriva così al nocciolo della questione: la crescita economica dell'Italia degli ultimi decenni non è stata artificiale, semplicemente non c'è stata.

I 2 mila miliardi di euro di debito pubblico sono un sintomo, non la malattia. Il debito è stato accumulato a causa di una irresponsabile spesa dello Stato, che però ha avuto luogo negli anni Settanta e Ottanta, non recentemente. Se nei vent'anni successivi alla crisi finanziaria del 1992 l'Italia fosse cresciuta del 2 per cento l'anno, il debito sarebbe sceso ben sotto il 100 per cento del Pil e non costituirebbe la seria preoccupazione che rappresenta oggi. L'Italia si è invece trascinata nella stagnazione.

Ciò rende l'Italia un elemento più pericoloso e più importante degli altri debitori dell'eurozona. Dal punto di vista dei tedeschi e degli investitori stranieri, il presidente Monti ha realizzato un ottimo lavoro quanto alla riduzione della spesa pubblica. Diversamente dal caso greco o da quello spagnolo, Monti non può fare molto di più. Il vero problema è l'assenza di crescita.

E ciò ci riporta a Marchionne, ma non a lui personalmente. Come il debito, la diffusa opinione negativa che in Italia si ha sulla sua persona, in particolare tra i media delle élite, è agli occhi dei tedeschi, dei britannici e degli americani il sintomo di qualcosa che potrebbe dimostrarsi molto pericoloso: che agli italiani non interessi veramente la crescita economica.

Ciò che compromette l'immagine esterna dell'Italia è il timore che l'animosità verso Marchionne risponda alla dinamica confermata recentemente dal caso disperato della British Gas. L'azienda britannica ha deciso di abbandonare definitivamente il progetto di un impianto a Brindisi, dopo aver aspettato inutilmente per undici anni il permesso per costruire un terminal per gas naturale liquefatto, nonostante l'Italia sostenga di averne bisogno per ridurre i costi energetici e la sua dipendenza dal gas russo.

Questa è la dinamica sulla quale il presidente Monti deve intervenire con più incisività. Non trasformando Marchionne in un santo, ma radunando a favore del suo governo e delle sue riforme liberali il più ampio mondo imprenditoriale e adoperandosi per convincere gli investitori stranieri che l'Italia è un paese che ha davvero abbracciato il capitalismo moderno e che è pronto ad accogliere al meglio chi vuole fare affari. Se Monti o il suo successore a Palazzo Chigi vi riuscissero, il debito pubblico passerebbe in secondo piano.

 

 

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