FIAT VOLUNTAS MARPIONNE - IL RILANCIO FIAT (CHE NON ARRIVA) PASSA PER MIRAFIORI: ANNI DI CASSA INTEGRAZIONE, POI SI VEDE

Vittorio Malagutti per "l'Espresso"

Ha collaborato Fabio Lepore

 

Mirafiori? «È immovibile». Disse proprio così, Sergio Marchionne: «Immovibile». A dispetto dell'italiano zoppicante, il senso della frase sembrava chiaro. «Non si chiude», prometteva il capo della Fiat nel maggio del 2009. Quattro anni dopo quell'impegnativa dichiarazione, lo storico stabilimento torinese sopravvive a se stesso sempre più simile a un guscio vuoto, monumento a un'industria che rischia di non esserci più, quella dell'auto made in Italy. Terminate le ferie, i 5.500 dipendenti di Mirafiori (erano 14 mila nel 2009) hanno ripreso la solita mesta routine: 3 giorni di lavoro al mese.

L'orizzonte non supera fine settembre, poi scade l'accordo per i sussidi pubblici. Marchionne dovrà bussare un'altra volta al governo per ottenere i soldi della cassa integrazione. Servirebbe un piano concreto, una mission (per dirla nel gergo manageriale) da affidare alla vecchia fabbrica.

L'intesa annunciata mercoledì 4 settembre, che rinnova la promessa di portare a Mirafiori la produzione di un suv a marchio Maserati, dovrà essere misurata nei prossimi mesi sul terreno dei fatti. A maggior ragione dopo la girandola di progetti strombazzati e mai realizzati negli ultimi due anni. Piuttosto, in questi giorni, il futuro è più che mai appeso a un negoziato che prosegue da mesi sottotraccia dall'altra parte dell'Atlantico. Tutto dipende dall'accordo sul prezzo per il 41,5 per cento di Chrysler messo in vendita dal sindacato americano Veba. Fiat conta di arrivare al controllo dell'intero capitale della casa di Detroit pagando non più di 2 miliardi di euro.

Serviranno settimane, forse mesi, per chiudere la partita in Usa, con un'intesa che spianerà la strada alla fusione tra l'azienda italiana e quella statunitense. Prima di allora Marchionne non ha nessun interesse a mettere le carte in tavola, ammesso che ne abbia qualcuna da giocare. Anzi, per il momento il manager ha buon gioco a volare basso. Alternando minacce a promesse, aperture e bruschi stop.

Nuovi investimenti in Italia? «Impossibili, senza una nuova legge sulla rappresentanza sindacale», attaccava il manager lunedì 2 settembre, annunciando, come previsto da una sentenza di luglio della Corte Costituzionale, la riammissione in fabbrica dei delegati Fiom. È un copione già visto. Nel settembre del 2009, poche settimane dopo aver proclamato l'«immovibilità» di Mirafiori, Marchionne chiedeva «condizioni di governabilità» prima di parlare di nuovi «modelli o piattaforme».

A quattro anni di distanza siamo tornati al punto di partenza. Solo che nel frattempo la recessione ha tagliato di quasi il 20 per cento le vendite di auto in Europa e il made in Italy del gruppo Fiat si è ormai ridotto a poca cosa. Mirafiori ha perso per strada i modelli Musa e Idea della Lancia, entrambi fuori produzione dall'anno scorso. La fabbrica di Torino ormai produce solo la vecchia Alfa Mito.

Cassino invece, con i suoi 3.800 dipendenti, sopravvive con Alfa Giulietta, Fiat Bravo e Lancia Delta, ma anche questo stabilimento lavora solo due settimane al mese con una produzione diminuita di oltre il 30 per cento tra il 2011 e il 2012 e in ulteriore calo nel 2013.
Restano Pomigliano e Melfi. L'80 per cento della produzione italiana del gruppo si concentra ormai in questi due poli. L'impianto campano, al centro di un lungo scontro sindacale, galleggia grazie alla Nuova Panda ereditata dalla fabbrica polacca di Tychy. Per il sito di Melfi, interamente dedicato alla Punto (modello con un grande futuro alle spalle), le prospettive sono legate ai due nuovi suv, uno col marchio Fiat e l'altro griffato Jeep, già annunciati da Marchionne che però non ha precisato tempi e modi in cui si sarebbe passati dalle parole ai fatti.

A rimorchio dei problemi del costruttore, com'è ovvio, marciano, amplificati, quelli dei fornitori. Mauro Ferrari, presidente del Gruppo componentisti dell'Anfia, l'associazione italiana dei produttori di veicoli e componenti, lancia un allarme disperato: «Negli ultimi tre anni abbiamo perso 15-20 mila lavoratori, le aziende hanno ridotto i margini drasticamente e smesso di investire in ricerca e sviluppo, le banche hanno stretto i cordoni della borsa. È una situazione pericolosa. Abbiamo raggiunto il limite oltre il quale il sistema si rompe».

«Vedo la luce in fondo al tunnel, ma rischia di essere un treno», scherzava Marchionne un paio di anni fa dando fondo alle riserve di humour nero. Il guaio è che quella fosca previsione rischia di rivelarsi corretta. Con gli stabilimenti che viaggiano a scartamento ridotto o ridottissimo, l'annoso problema dell'eccesso di capacità produttiva si esaspera. Uno studio di AlixPartners rivela che il 40 per cento delle più importanti fabbriche di auto in Europa viaggiava già l'anno passato sotto la soglia di utilizzo del 75 per cento delle proprie possibilità. E siccome per pareggiare i conti bisogna stare tra il 70 e l'80 per cento, le perdite fioccano. E fioccherano pure nel 2013 se si avvereranno le previsioni della società di consulenza.

Gli esperti di AlixPartners ipotizzano infatti che, quest'anno, la percentuale di impianti sotto la linea di galleggiamento arriverà al 58 per cento. Se in Francia e in Spagna non se la passano bene, rispettivamente con il 62 e il 67 per cento di utilizzo medio degli impianti, l'Italia - con il suo 46 per cento - appare in condizioni ancora peggiori, al limite della sopravvivenza. E infatti, ciclicamente, scurissime nuvole si addensano sopra uno o l'altro degli stabilimenti Fiat, e cresce il timore di un'altra chiusura come a Termini Imerese, in Sicilia.

Molti osservatori, dentro e fuori la Fiat, ritengono assai improbabile, per ragioni politiche e identitarie, la chiusura di Mirafiori. «Non si chiude un simbolo», è la convinzione (o la speranza) diffusa. Al momento, però, l'unica certezza è che la cassa integrazione, nello storico impianto Fiat, comunque continuerà a lungo dopo i 18 mesi che termineranno a fine settembre.

Perché anche il suv Maserati appena annunciato per Mirafiori avrà bisogno di almeno 18 mesi per entrare in produzione. Per il momento, secondo indiscrezioni di fonte sindacale, la Fiat ha investito solo una manciata di milioni sulle linee produttive della vecchia fabbrica torinese. Interventi di mantenimento portati a termine nei mesi scorsi per una ventina di milioni, niente di più.

Di questi tempi, a quanto pare, la Fiat preferisce puntare sui giornali invece che sulle auto. È di poche settimane fa l'investimento di un centinaio di milioni in occasione dell'aumento di capitale di Rcs media, con l'obiettivo di rafforzare la posizione di primo azionista del "Corriere della sera". Questione di priorità. E di scelte politiche.

A giorni la Fiat dovrà trovare l'accordo per la prossima tornata di cassa integrazione a Mirafiori. Ci sono due possibilità: la cassa potrebbe essere "per ristrutturazione" o, come dall'aprile scorso "per riorganizzazione". La seconda fattispecie è fonte di ulteriore preoccupazione. Giacché, dice Federico Bellono segretario della Fiom di Torino, «nella cassa per riorganizzazione l'azienda deve fare investimenti che possono anche non essere industriali in senso stretto e quindi è meno collegata al lancio di nuove produzioni».La speranza di tutti, a questo punto, è che il suv griffato Maserati funzioni da salvagente.

Caterina Gurzì, addetta delle Carrozzerie di Mirafiori, in fabbrica non ci entra da maggio, dopo aver lavorato a lungo per i famosi tre giorni al mese. «Quando era stata portata qui la nuova Punto è stata fatta una grande festa e poi dopo appena un anno ce l'hanno tolta. Quali prospettive abbiamo? C'è solo la rabbia, anche gli impiegati si sono accorti che neanche loro resteranno immuni dai problemi veri».

Infatti, anche tra i colletti bianchi c'è sconforto. «Adesso abbiamo parecchio da fare per i lanci dei modelli prodotti in Serbia e la Maserati, e i due piccoli suv destinati a Melfi. Però dalla fine del 2014 in poi non abbiamo visibilità su alcun progetto avviato», racconta un impiegato dell'ufficio acquisti che preferisce restare anonimo.

Se Mirafiori resta davvero «immovibile» (Marchionne dixit) il più a rischio degli impianti appare a questo punto quello di Cassino. Che in mancanza di alternative deve aggrapparsi alla Giulietta. Ma il segmento C, quello dove domina la Golf, per intenderci, resta uno dei più deboli del gruppo. E i vertici del Lingotto non hanno mai manifestato grande urgenza di mettere mano alla situazione. Che tradotto in parole povere significa investire nuove risorse.

Eppure, nella recente strategia di comunicazione di Marchionne sono stati enfatizzati il ruolo e le potenzialità dell'Alfa e della Maserati. Cioè il lusso abbordabile e quello vero, insomma. Sulle prospettive della marca del Tridente molti analisti continuano a dirsi fiduciosi. Con le due vetture prodotte all'ex Bertone di Grugliasco (Torino), la Quattroporte e la Ghibli, la marca emiliana potrebbe tornare a dire la sua, rafforzata (almeno questa è la speranza del Lingotto) anche dal nuovo suv che allarga la gamma dell'offerta.

Non è invece affatto chiaro come Marchionne intenda muoversi sul fronte Alfa, candidata per l'ennesima volta (succedeva già una dozzina di anni fa) a raggiungere quota 300 mila vendite annue, triplicando quindi l'attuale produzione. A parte voci e indiscrezioni, dal Lingotto non sono mai arrivate indicazioni chiare sulla prossima Giulia, auto del segmento D, quello presidiato da Audi, Bmw e Mercedes. Pare comunque assai probabile che, almeno inizialmente, la Giulia sarà costruita in Nord-America.

C'è poco da fare, allora: sdegnosamente immobile sull'argomento auto-elettrica, tiepido sull'ibrido, il gruppo Fiat sembra intenzionato a viaggiare col motore al minimo, quanto meno in Europa. Marchionne continuerà a rinviare gli investimenti in Italia fino a quando il mercato non ripartirà. E comunque preferirà puntare sui brand potenzialmente forti (Alfa, Jeep e Maserati) che possono garantire margini di guadagno più elevati senza premere l'acceleratore sui volumi. Questa strategia, però, rende ancor più difficile da risolvere la questione della sovraccapacità produttiva.

Eppure Marchionne insiste. «Ribadisco che non chiuderemo nessun impianto: le attività estere sono una sorta di protezione per quelle nazionali», garantiva solo tre mesi fa, nel giugno scorso, il capo della Fiat. Una promessa che appare sempre più difficile da mantenere. E allora coi tempi che corrono, conviene buttarla in politica. Discettando di «governabilità» e «rappresentanza sindacale».

 

 

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