ANCHE LA GERMANIA PUÒ FARE LA FINE DELL’ITALIA - L’ECONOMIA RALLENTA, E SE LA MERKEL NON ALLENTA LA PRESA SUI CONTI, SI FERMERA'

Tonia Mastrobuoni per "la Stampa"

Mai come nel 2012 la Germania si è scoperta legata ai destini dell'euro, in barba ai propugnatori del neo-marco e ai teorici di una relativa autonomia commerciale di Berlino dal resto del continente. Nel suo recente rapporto sulla prima economia europea, il Fmi scrive che l'anno scorso, molto più che nel 2011, gli imprenditori tedeschi hanno tirato il freno a mano, in attesa degli sviluppi nella crisi europea.

In altre parole, la debolezza degli investimenti e delle esportazioni sono «in gran parte dovuti alla forte contrazione dell'export verso l'eurozona». Di conseguenza il 40% delle pmi tedesche hanno «posposto gli investimenti e adottato un atteggiamento attendista», nonostante le condizioni di approvvigionamento molto vantaggiose dovute ai tassi di interesse ai minimi. Quest'anno, conclude il Fmi che stima la crescita tedesca allo 0,3%, la ripresa dipenderà dunque «fortemente dal recupero nel resto dell'area dell'euro e da una riduzione dell'incertezza» che tuttora attanaglia il Vecchio continente.

Ma la notizia non è solo questa. Nello stesso rapporto, il Fmi evidenzia alcune novità che potrebbero parzialmente dare ragione a un recente studio di Natixis che sostiene che la Germania stia cambiando «radicalmente» in questi anni di crisi e che stia perdendo molte delle caratteristiche che avevano fatto gridare nel 2007 al "nuovo miracolo economico".

Alcune di esse la starebbero rendendo addirittura più simile ai "peccaminosi" Paesi del Sudeuropa, tanto vituperati per la loro scarsa competitività e la loro tendenza a somigliare a cicale spendaccione, piuttosto che a laboriose formiche. Natixis ricorda che tra il 2000 e il 2007 il modello economico tedesco si è basato su salari stagnanti e domanda interna debole e su tassi crescenti di redditività e competitività che hanno poi favorito la crescita esponenziale del suo export, il boom degli investimenti e, soprattutto, dell'occupazione.

Più di recente, dal 2009, «un modello completamente diverso» sarebbe emerso conseguentemente allo tsunami da subprime, «basato sulla domanda interna». Da allora i salari starebbero crescendo più velocemente della produttività, la competitività starebbe «peggiorando», gli investimenti starebbero rallentando, le esportazioni si starebbero indebolendo e quote crescenti di Pil sarebbero sostenute dai consumi, favoriti dal tassi storicamente bassi di disoccupazione e da robusti aumenti salariali.

Di questo passo, profetizza il rapporto, nel 2015 la redditività della Germania «sarà tornata ai livelli del 2000» e nel 2020 , il costo del lavoro relativo, paragonato al resto dell'eurozona, sarà tornato anch'esso «ai livelli del 2000».

Una Germania più cicala, che consuma di più, elargisce stipendi sproporzionati rispetto alla produttività, è una buona notizia per il resto d'Europa, conclude Natixis, la rende «più cooperativa», cioè più trainante. Ma non è una buona notizia per la Germania stessa, che avrebbe adottato così un modello a lungo andare insostenibile e fiaccante.

Viene il dubbio che alcuni di cambiamenti individuati da Natixis siano temporanei, legati alla crisi, dunque interpretati in modo troppo assoluta. Anche il Fmi scrive che nel 2012 «i consumi sono cresciuti in modo robusto, la disoccupazione è circa ai minimi dalla riunificazione e i salari sono aumentati più dell'inflazione». Ma il vero punto debole della prima economia europea resta un'altro, probabilmente, ben individuato dal Fondo: lo scarso sviluppo del settore dei servizi e la tendenza a un eccesso di zelo sui conti pubblici.

 

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