IL FISCO ITALIANO VUOLE METTERGLIELO NEL GOOGLE! - L’AGENZIA DELLE ENTRATE INDAGA SUI PROFITTI DI GOOGLE ITALY, TRASFERITI PER RAGIONI FISCALI IN IRLANDA - L’INCHIESTA NASCE NEL 2006 QUANDO ALCUNI MASCALZONI PICCHIANO UN DISABILE A MILANO E CARICANO IL VIDEO SU YOUTUBE - LA FINANZA ENTRA NEGLI UFFICI DI MILANO PER INDAGARE SUL PESTAGGIO E NE ESCE CARICA DI DOCUMENTI CONTABILI - LA “GOOGLE TAX” INGOLOSISCE ANCHE HOLLANDE…

Alessandra Bonomolo e Luca Piana per "l'Espresso"

Fu la scoperta che al di qua della cortina di ferro i cittadini non avevano paura del loro governo a spingere il padre di Sergey Brin a fuggire dalla Russia per andare negli Stati Uniti. Lo racconta lo stesso fondatore di Google nell'ultima lettera agli azionisti della multinazionale del web.

Nella quale Brin e il suo socio di sempre, Larry Page, non dicono invece una parola su una delle formule segrete del loro straordinario successo. Google è strutturata in modo da pagare le tasse dove sono più basse, sfuggendo alle grinfie dei governi maggiormente esosi. Con il risultato che, mentre fa affari miliardari in Paesi come la Gran Bretagna, la Francia, l'Australia e l'Italia, versa nelle casse di questi Stati imposte sui redditi risibili, quando non pari a zero.

In tempi di conti pubblici allo sfascio, l'impalcatura fiscale voluta dai due geni del web e da Eric Schmidt, il manager che negli ultimi anni ha contribuito in maniera determinante all'espansione dell'azienda, inizia però a dare qualche grattacapo. Lo scorso maggio, in Australia, la scoperta che con Google il fisco va quasi in bianco, a dispetto di un giro d'affari stimato in oltre 900 milioni di dollari locali, ha spinto il ministro delle Comunicazioni del governo di Julia Gillard a lanciare l'idea di una stretta per impedire alle multinazionali di trasferire i profitti nei paradisi fiscali.

Anche in Francia stanno tentando di passare ai fatti. Il 12 luglio scorso è stata nominata una commissione di esperti che, entro l'autunno prossimo, dovrà studiare come far pagare le tasse ai colossi americani del commercio on-line, da Google a Facebook, da Amazon a Apple. «Il nostro sistema fiscale non riesce a stare dietro alle nuove forme di transazione dell'economia digitale», hanno scritto ben quattro ministri, capitanati da Pierre Moscovici, il titolare dell'Economia. «Ne risulta», continua il comunicato, «un mancato incasso per le finanze pubbliche e uno svantaggio per le imprese francesi».

Le quali, poverette, le imposte sono tenute a pagarle, mentre «i gruppi internazionali si organizzano per eluderle o ridurle», come dice senza giri di parole la nota ufficiale firmata da Moscovici e colleghi. Se arriverà davvero la "Google Tax", come la chiamano a Parigi, e se altri governi ne trarranno esempio, si vedrà. Nel frattempo, però, potrebbero essere le autorità fiscali italiane ad assestare un primo colpo al sistema del gigante americano.

Da anni, infatti, le attività tricolori di Google sono al centro di un'indagine che, tra accelerazioni e rallentamenti, dovrebbe essere non lontana dalla conclusione. Come talvolta capita, tutto è nato per caso. Nel 2006 alcuni mascalzoni minorenni picchiarono un ragazzo disabile e caricarono il video su YouTube, il sito di condivisione di filmati di proprietà di Google. La Procura di Milano iniziò un'indagine per verificare eventuali responsabilità e la Guardia di Finanza si recò negli uffici del gruppo, a due passi da piazza San Babila.

Al di là dell'innesco occasionale dell'inchiesta, la documentazione raccolta ha rivelato ai finanzieri un sistema che permette a Google di trasferire in Irlanda i profitti realizzati operando in Italia. Anche se agli occhi di gran parte dei suoi utilizzatori il motore di ricerca ideato da Page e Brin appare come uno strumento completamente gratuito, in realtà nel tempo ha sviluppato una serie di attività commerciali molto redditizie (vedi il grafico qui a fianco).

Ad esempio, se si prova a digitare "cellulari" e si fa partire la ricerca, i primi tre collegamenti - definiti "sponsorizzati" - dell'elenco dei risultati riportano ai siti di Nokia, Saturn e Vodafone. Per ogni click effettuato dagli utenti, questi tre operatori del settore pagheranno una certa somma a Google. Oppure, se si recupera l'articolo on-line del quotidiano "The Australian" dove si ricostruiscono le accuse di elusione al gruppo, si può vedere che su questo come su altri milioni di siti internet la pubblicità è fornita da Google stessa, che la raccoglie attraverso diversi sistemi.

Nei bilanci della filiale australiana o in quelli della piccola Google Italy, con sede a Milano, non si troverà però traccia di queste attività. A fatturare è sempre la Google Ireland, dove il gruppo ha collocato il centro delle proprie operazioni fuori degli Stati Uniti. A Dublino il gruppo ha 2 mila dipendenti e ha trasformato un'area decadente - quella dei Docklands - in una delle più ricche della città, ribattezzata oggi Silicon Docks e scelta da diverse altre multinazionali.

Fra i tanti motivi per scegliere la capitale irlandese, uno rilevante è proprio quello della tassazione: in Irlanda, uno dei primi Paesi dell'area euro ad aver avuto bisogno di un salvataggio da parte degli altri Stati membri (era il 2010), si pagano meno imposte che altrove, come si legge nell'intervista qui sotto a John Christensen.

In questi intrecci la Guardia di Finanza ha scavato a lungo. Ed è giunta a interessanti conclusioni. Dal 2002 al 2006 il giro d'affari realizzato da Google in Italia era passato da 2 a 135 milioni di euro, per un totale di 237 milioni. Su questa attività e sui guadagni realizzati l'azienda non ha mai versato un euro di imposte, né Ires, né Irap, né Iva.

La Google Ireland (e, prima che questa nascesse, la Google americana) non presenta dichiarazione dei redditi in Italia perché sostiene che la filiale milanese fa solo assistenza (la definizione corretta è "marketing services") per conto della consorella irlandese, che firma materialmente i contratti con la clientela.

Per i finanzieri non è però così: la Google Italy (che nel 2010 ha messo a bilancio imposte per 1,3 milioni) ha in realtà una doppia anima, quella ufficiale di assistenza, che si può tranquillamente desumere dai bilanci, e quella di una struttura organizzata per svolgere attività d'impresa per conto di Google Ireland, procacciare gli affari e intervenire in modo determinante nei contratti.

La società italiana non è dunque autonoma, come confermerebbe una serie di indizi, ad esempio il fatto che quando ci sono state delle perdite sui clienti è stata l'Irlanda a farsene carico. Per la Guardia di Finanza, Google Ireland ha in Italia quella che in gergo tributario è definita una "stabile organizzazione". E, soltanto per gli anni analizzati, quelli del decollo, stando ai calcoli degli investigatori ha scansato imposte per circa 80 milioni.

Se questa ricostruzione fosse corretta, per Google sarebbe un bel problema. Dal 2006 a oggi, infatti, il fatturato "ombra" realizzato in Italia è esploso. Per capire quanto, bisogna affidarsi alle stime di settore, perché Google Ireland non ha mai fornito spaccati geografici della propria attività e, dal 2010, ha smesso anche di depositare il bilancio, avvalendosi di una norma locale che le consente di rifarsi semplicemente a quello della capogruppo americana, anch'esso non molto dettagliato.

Fatto sta che, in Italia, i ricavi del gruppo avrebbero superato i 400 milioni di euro già nel 2009 e i 550 milioni nel 2011. Applicando il metodo della Guardia di Finanza, dunque, dal 2007 a oggi avrebbe eluso imposte per altre centinaia di milioni. Un beneficio non da poco, per un'azienda che nel frattempo sta divorando quote nel mercato della pubblicità destinata al web.

Dopo l'avvio bruciante, però, la verifica fiscale è entrata in una fase delicata, necessariamente più lunga. La procura di Milano ha deciso che non c'erano violazioni penali e per quelle tributarie ha lasciato la palla all'Agenzia delle Entrate.

La quale, stando a quanto appreso da "l'Espresso", sta ancora approfondendo la pratica, perché la questione della stabile organizzazione non è solo complessa in sé (bisogna ad esempio quantificare i costi sostenuti in Irlanda per calcolare i veri profitti) ma si presta anche a molti distinguo. Un punto fermo, però, non dovrebbe tardare: l'accusa di omessa dichiarazione va in prescrizione dopo 10 anni, dunque all'Agenzia resta un solo anno di tempo per formalizzare le contestazioni che potrà fare.

Sulla questione, la posizione di Google è che il gruppo le tasse che deve le paga: «Abbiamo l'obbligo verso i nostri azionisti di mantenere un sistema fiscale efficiente e la nostra attuale struttura rispetta le leggi in vigore in tutti i Paesi in cui operiamo. Google contribuisce alle imposte locali e nazionali e dà lavoro a oltre un centinaio di persone in Italia». Se l'azione delle autorità italiane andasse in porto, però, per il gruppo le acque si farebbero agitate. Perché i pruriti contro la sua architettra fiscale sono ormai diffusi anche in Paesi che, per il gruppo, valgono più dell'Italia.

Il motivo lo si capisce leggendo il bilancio 2011 della capogruppo Google Inc. Si dice che la Gran Bretagna è il secondo mercato al mondo per il gruppo, con ricavi per 4,05 miliardi di dollari. Al di fuori degli Stati Uniti, però, tutti i profitti tassabili finiscono in Irlanda, dove l'azienda ha messo a bilancio imposte correnti per 248 milioni di dollari su un guadagno lordo di 7,63 miliardi. Un livello di tassazione che gli altri imprenditori europei faticano persino a sognare.

 

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