TELECOM SALTA SENZA RETE, MA CDP TENTENNA E LETTA INCONTRA BERNABE’

Stefano Cingolani per "il Foglio"

Il progetto di scorporare la rete telefonica fissa è stato approvato dal consiglio di amministrazione di Telecom Italia il 30 maggio, ma si tratta di una tappa in un lungo percorso tra cavilli giuridici, paletti dell'autorità delle comunicazioni e dell'antitrust, bastoni tra le ruote, sospetti, liti sul prezzo e soprattutto su chi comanda. Con alle spalle un'ombra oscura: un salvataggio pubblico surrettizio utilizzando la Cassa depositi e prestiti (Cdp). La decisione del cda è stata presa con 14 voti favorevoli su 15.

Contrario si è dichiarato l'economista Luigi Zingales che per correttezza non vuole spiegare pubblicamente il perché. "Allora lo dico io: scorporo rete Telecom dettata da difficoltà finanziarie (degli azionisti) non da visione strategica", scrive su Twitter Marco De Benedetti. Veleni di un ex (è stato amministratore delegato di Tim fino al 2005)? Non solo. Prudenza e cautela si respirano a Roma anche nel palazzone umbertino della Cdp che fa da sostegno e baluardo al ministero del Tesoro.

Le possibilità che l'operazione si realizzi viene data al 50 per cento. Soprattutto, non è piaciuta l'intervista dell'amministratore delegato Marco Patuano alla Repubblica perché dice chiaramente che non solo Telecom vuol mantenere il 51 per cento, ma vuole comandare mettendo i suoi uomini al timone della futura società.

Franco Bassanini, presidente del Cdp, non ci sta: maggioranza azionaria sì, ma la governance va decisa insieme. In attesa di capire anche quale sarà l'orientamento del governo, alla Cdp non possono e non vogliono dire di più.

Intanto gli analisti si chiedono se è davvero un buon affare. Nonostante quel che è apparso dai titoloni sui giornali, dunque, è tutt'altro che fatta. Del resto se ne parla dal lontano 1997, cioè da quando venne privatizzata Telecom. Tre anni fa sembrava che si fosse giunti a un punto di svolta, ma si mise di traverso il gran capo Franco Bernabè. Adesso ha cambiato idea.

E tuttavia in Piazza Affari molti sospettano che ancor oggi non sia affatto convinto. Il suo settennato scade nell'aprile 2014 e sono stati davvero sette anni di vacche magre. Il suo obiettivo principale è stato contenere l'enorme indebitamento e impedire che gli spagnoli di Telefonica facessero un sol boccone di Telco, la holding che controlla il gruppo. Ed è stato aiutato dal collasso della Spagna. Ma Bernabè non vuole lasciare tra un anno una compagnia piccola e smembrata.

Non a caso ricorda che nel 1992, quando lo mandarono all'Eni, dopo il suicidio di Cagliari e lo scandalo tangenti Enimont, dal governo gli chiesero di venderla a pezzi. Ma lui ha resistito. In Europa c'è un solo esempio di separazione della rete, in Gran Bretagna. Ma anche British Telecom si è limitata a uno spin-off, creando una società della quale rimane signora e padrona. Dalla decisione iniziale nel 2004 alla partenza vera e propria sono trascorsi quattro anni.

E stiamo parlando di un paese a bassa intensità burocratica e alta intensità di mercato. A un modello diverso, stile Terna o Snam, si è opposto Bernabè. E ancora ieri il presidente di Cdp, Bassanini, ha fatto capire che l'ipotesi non è più sul tavolo, rispondendo così - a margine dell'assemblea di Confcommercio - a chi gli chiedeva lumi su un possibile progetto di una holding con le partecipazioni nelle società che controllano le infrastrutture pubbliche: "Non riesco a capire di cosa state parlando, sono cose che al momento non sono assolutamente sul tavolo".

L'idea di collocare la rete in rame e quegli spezzoni di rete a fibra ottica in una società indipendente, quotata in Borsa, alla quale partecipino investitori istituzionali e compagnie telefoniche, piaceva invece agli altri operatori, secondo i quali, al contrario, la separazione funzionale favorisce solo Telecom (con l'aiuto indiretto dello stato) a scapito degli altri. "Falso, noi garantiamo l'accesso più libero alle migliori condizioni possibili", ribatte Bernabè.

E tuttavia il sospetto che sia soprattutto una scelta di natura finanziaria resta. A fine 2012 il gruppo, a fronte di 30 miliardi di euro di ricavi, ha registrato una perdita di 1,3 miliardi, con un patrimonio netto di 23 miliardi, un debito finanziario di 28 e una capitalizzazione di mercato scesa ad appena 12 miliardi, tanto quanto incassò il Tesoro nel 1997 vendendo la sua quota del 39,5 per cento. Altri tempi. Appunto.

Oggi Telecom è un colosso pietrificato e per di più dai piedi d'argilla. Il fatturato si è ridotto leggermente rispetto al 2011 e anche le perdite sono inferiori (l'anno prima erano arrivate a 4,3 miliardi). Ma il valore di Borsa è in discesa: un'azione quota oggi mezzo euro, era arrivata a 85 centesimi nel settembre scorso, è scesa sotto l'euro dal febbraio 2011 e non si è più ripresa.

Il capitale di Telecom è controllato da Telco con il 23 per cento: si tratta di un patto di sindacato tra Telefonica, Mediobanca, Generali, Intesa che è stato rinnovato fino al 28 febbraio 2015, Sintonia (Benetton) è uscita già nel 2009. Il nuovo assetto risale al 2007, quando la cordata tra banche e spagnoli rilevò la quota di Marco Tronchetti Provera.

Da allora a oggi il valore della partecipazione si è ridimensionato senza che i risultati operativi potessero compensare le perdite finanziarie con la distribuzione di lauti dividendi. Ora si è affacciato un nuovo socio, la Hutchison Whampoa del magnate di Hong Kong Li Ka-shing che in Italia è presente con 3, compagnia telefonica che nel mobile ha una quota di mercato del 10 per cento. Si è parlato di una fusione, ma i cinesi sono pronti a diventare azionisti di riferimento.

Le banche sono disposte a disincagliarsi da un investimento in perdita e rischioso, gli spagnoli hanno ancora grossi guai, tuttavia considerano Telecom importante soprattutto per la sua forza in Brasile nel mobile. Dunque, vogliono vendere cara la pelle. La Borsa per ora non festeggia Questo è il quadro nel quale s'inserisce lo scorporo. L'ipotesi è di creare una società nella quale la Cassa depositi e prestiti abbia una quota del 15-20 per cento, mentre un 30-40 per cento verrebbe offerto sul mercato a fondi e operatori istituzionali. Il resto a Telecom.

Nella newco entrerebbe la rete fissa, in rame, comprese le cabine alle quali sono collegati i telefoni degli utenti (famiglie e imprese). E' probabile che Cdp conferisca anche Metroweb, la società milanese presa da Fastweb che ha una piccola ma strategica rete in fibra ottica. Secondo gli analisti, la rete Telecom vale circa 6,7 miliardi ai quali però verrebbero aggiunti almeno 10 miliardi di debiti.

Telecom stima 15 miliardi, Cdp appena 10 miliardi. Le posizioni, dunque, sono distanti. La Borsa finora è rimasta scettica e i guru della finanza e della Tlc sono divisi. Gli analisti di Intermonte giudicano positivamente l'apertura formale del processo anche se l'operazione è ancora condizionata all'analisi dell'Agcom, l'Authority delle comunicazioni.

Pur non convinti dei benefici industriali dell'operazione (più flessibilità per Telecom, ma anche per i concorrenti), gli esperti di Equita vedono alcune opportunità: viene preservata l'italianità della rete, in più cade il presupposto per il quale era stata fondata Telco il cui patto ha una finestra di uscita il prossimo settembre.

L'analista Robin Bienenstock, della molto quotata Bernstein & Co., ha espresso le sue perplessità sull'operazione. Decisamente negativi sono i Jp Morgan boys e quelli di Nomura, mentre Deutsche Bank scommette sulle sinergie di un matrimonio con 3 Italia, favorito dallo scorporo della rete. L'ex monopolista, o incumbent come viene chiamato in gergo, ha una quota di mercato del 64,6 per cento nel fisso, seguito da Wind con 13,6, Vodafone (9,4) e Fastweb (8,3).

Se resta in maggioranza nella proprietà e nella gestione, qual è il vantaggio per la concorrenza? Nel decennio scorso tutti hanno puntato sul mobile e qui i rapporti di forza sono più equilibrati: Telecom ha il 34,6 a fronte del 31,7 di Vodafone e al 23 di Wind. Ma in vista della sempre maggiore convergenza, la rete fissa è strategica. I paesi che hanno sviluppato il cavo coassiale anche per la tv, sono senza dubbio favoriti, e anche per questo l'Italia deve sviluppare una infrastruttura delle telecomunicazioni più moderna e competitiva.

Non è a questo - cioè a progetti d'investimenti per la banda larga, magari in collaborazione con gli operatori privati - che dovrebbero essere destinate le risorse pubbliche, anziché ad alleggerire Telecom (e le banche azioniste)? Ecco il dilemma di fronte al quale si trova il governo. Tanto più che, spendendo esattamente lo stesso, la Cdp potrebbe rilevare l'intera quota di Telco. Una nazionalizzazione? Non proprio, perché potrebbe poi rivenderla traendone beneficio.

E' stata sollevata una questione di sicurezza nazionale. Ma le intercettazioni telefoniche ormai passano attraverso Internet e senza dubbio sono più numerose quelle sulla rete mobile. Quanto alla "obiezione nazionalistica", mentre l'Italia è già terreno di caccia per inglesi (Vodafone), svizzeri (Fastweb), russi (Wind) e cinesi, questa tendenza non può certo essere contrastata scorporando la rete.

Al contrario. Il governo di grande coalizione guidato da Enrico Letta finora si è tenuto fuori. Lo stesso hanno fatto i suoi predecessori Silvio Berlusconi e Mario Monti. Tuttavia, il 20 maggio si è svolto un incontro tra Bernabè e il presidente del Consiglio. "Ci mancherebbe che i problemi di una grande impresa non fossero oggetto di attenzione", dice il presidente esecutivo di Telecom. I partiti sono rimasti alla finestra in tutt'altre faccende affaccendati. Ma, archiviate ormai le elezioni locali, c'è da giurare che si faranno vivi.

 

Franco BernabèLETTA enricol LUIGI ZINGALES RODOLFO CARLO EDOARDO E MARCO DE BENEDETTIMarco Patuano Telecom ItaliaFRANCO BASSANINI metroweb logo

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