
A CAPO DELLA NUOVA CUPOLA DI PALERMO, SMANTELLATA DALL’OPERAZIONE “APOCALISSE”, C’ERA GIROLAMO BIONDINO, FRATELLO DI UN EX UOMO DI FIDUCIA DI RIINA - E UNO DEI BOSS RIVENDICA LA PARENTELA CON IL KILLER DI JOE PETROSINO
Riccardo Arena per "La Stampa"
Il nuovo capo della mafia che comanda su mezza Palermo è nuovo - si fa per dire -, perché Girolamo Biondino, più volte condannato, è fratello di Salvatore, il boss preso al volante della Citroen Zx su cui viaggiava Totò Riina, nel gennaio del 1993, quando entrambi furono arrestati dai carabinieri del Ros. Girolamo, detto Mimmo Biondino, è un mafioso vecchio stampo, low profile, pronto a spostarsi in bus, perché da pensionato non disponeva di molto denaro e soprattutto perché preferiva non dare nell’occhio.
Le 95 misure cautelari emesse ieri dal gip Luigi Petrucci (78 sono ordini di custodia in carcere), rilanciano il ruolo della mafia siciliana, soppiantata in apparenza, dalla ’ndrangheta, ma mai doma e pronta a rilanciare nel campo degli affari, imponendo il pizzo a tutti gli imprenditori che lavorano nella parte ovest di Palermo, quella dei quartieri di Resuttana e San Lorenzo. Non c’è ribellione che tenga: 46 estorsioni ricostruite, due sole denunce.
Polizia, carabinieri e Finanza individuano i nuovi capi delle singole “famiglie”, in alcuni casi sconosciuti. È la qualità che scade sempre di più, annota il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che si ritrova con un capo di San Lorenzo, un tempo feudo dei Biondino, che di nome fa Giuseppe Fricano e che fino a ieri non era tra i boss più noti: «Ma la mafia – dice Teresi – è una macchina che non può fermare il business. I capi prevedono di essere arrestati e quando sono ancora liberi nominano i sostituti».
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Fricano, reggente di Resuttana, un tempo regno dei sanguinari Madonia, era un capo che prendeva botte per la strada dal suo rivale, Gioacchino Intravaia, che per questo poi rischiò la vita: i carabinieri, che nel corso dell’indagine “Apocalisse”, avevano ripreso la scena degli schiaffi e dei pugni, furono costretti a “scoprirsi” e a far capire che tutti i mafiosi erano sotto controllo, per salvare la vita a Intravaia. Per lui era pronto un piano di morte e i militari lo avvisarono, facendolo allontanare da Palermo. Ieri hanno arrestato pure lui.
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I nuovi capi sono Silvio Guerrera e Roberto Sardisco a Tommaso Natale, Tommaso Contino a Partanna-Mondello , Sandro Diele e Onofrio Terracchio a Pallavicino, Giuseppe Battaglia e poi Gioacchino Favaloro a Sferracavallo.
All’Acquasanta regna invece Vito Galatolo, all’Arenella Domenico Palazzotto, pronto a vantarsi della propria parentela con Paolo Palazzotto, uno dei 15 personaggi che nei primi del ‘900 furono imputati dell’omicidio del poliziotto italoamericano Joe Petrosino: in una conversazione intercettata Domenico Palazzotto rivendica orgoglioso la colpevolezza del parente, ingiustamente assolto per insufficienza di prove con il più che probabile mandante del delitto del 1909, il boss Vito Cascioferro.
Forse solo una vanteria, una rivendicazione di un pedigree mafioso superiore a quello degli altri, perché, spiega chi indaga, i capi che escono dal carcere o quelli che vantano una solida tradizione mafiosa, conservano il posto al vertice delle cosche.
2 - MIO ZIO UCCISE JOE PETROSINO - LA SOLUZIONE UN SECOLO DOPO
Giovanni Bianconi per ‘Il Corriere della Sera’
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«Noi è da cento anni che siamo mafiosi! — esclama Domenico con orgoglio —. Il centenario stiamo facendo... Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto... ha fatto pure un omicidio, del primo poliziotto ucciso... A Palermo... Lo ha ammazzato mio zio, lo zio di mio padre... Joe Petrosino, poliziotto americano che è venuto a indagare qua... È sceso dall’America questo, e ci è venuto a cacare la minchia qua... per indagare qua... La mafia... Sicilia... America...».
«Lo so... Qualche volta ti faccio vedere i libri — lo interrompe Nicola sfoggiando tradizioni e letture —. La mia famiglia è nei libri, nei libri di mafia!». Ma Domenico insiste col delitto Petrosino commesso dal prozio: «Lo ammazzò lui per conto di Cascio Ferro... Stiamo parlando, mi pare... 1910... una cosa di queste».
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Nicola però non cede, e torna ai propri avi: «Mia nonna ce l’aveva conservato un foglio di giornale, Giornale di Sicilia del ... o L’Ora , forse... 1958, ha cinquanta e rotti anni questo giornale, e c’è scritto “I nuovi capo a Palermo”, e c’è il suocero... (...) Il nonno di mio padre... Giacomino Sciarratta, tutti questi... C’è un libro che si chiama “Duecento anni di mafia” e c’è la fotografia del nonno di mio padre... Poi c’è un libro che si chiama “Da Cosa nasce Cosa”, e parla di mio nonno, di mio zio Franco, del mio bisnonno».
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Allora Domenico, non contento di rivendicare alla propria schiatta l’omicidio Petrosino, si butta sulla storia più recente, i processi istruiti da Giovanni Falcone: «In Pizza connection siamo implicati pure con la mia famiglia. Pizza connection, te la ricordi?». Nicola se la ricorda, ma pure lui ha altre carte da giocare: «I primi processi che hanno fatto a Palermo quali sono stati? Il processo Catanzaro, e c’era il nonno di mio padre... Il maxi-processo e c’era mio zio... Quando dice... “ci sono cristiani che hanno i pedigree...”... “No, onestamente... voialtri li avete tutti”».
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Domenico di cognome fa Palazzotto (lo stesso del prozio che avrebbe sparato al poliziotto italoamericano), e non ha ancora compiuto 29 anni; Nicola è Nicola Di Maio, ha quasi 33 anni ed è chiamato «il ragioniere», come Bernardo Provenzano. Li hanno intercettati nel febbraio 2013, mentre discettavano di genealogie criminali, e ieri sono finiti in carcere insieme ad altri 93 indagati nell’operazione palermitana «Apocalisse» con cui polizia, carabinieri e guardia di finanza hanno smantellato gli organigrammi di almeno tre «mandamenti» mafiosi.
I due giovanotti ne facevano parte, secondo la Procura, con ruoli importanti; Palazzotto è accusato di «avere diretto la famiglia mafiosa dell’Arenella, nel mandamento di Resuttana, punto di riferimento per le questioni legate la pagamento del “pizzo” e all’installazione di slot machines per conto dell’organizzazione mafiosa»; Di Maio, invece, «si occupava delle estorsioni e dei danneggiamenti prodromici alle stesse».
Li hanno arrestati grazie a pedinamenti e conversazioni registrate, compresa quella in cui sembrano fare a gara su chi possa vantare l’albero genealogico più ricco di boss. Di certo Palazzotto ha un cognome pesante, Joe Petrosino è famoso in tutto il mondo: nato in provincia di Salerno, emigrato da ragazzino a New York al seguito dei genitori nel 1873, divenne un detective promosso per meriti speciali dal futuro presidente Roosevelt; si mise sulle tracce dei gangster di origini italiane a partire dal cadavere ritrovato in un barile di birra, poi fece arrestare i taglieggiatori del tenore Enrico Caruso che lo minacciarono di morte durante la sua trasferta americana, e per risalire alle origini della cosiddetta «Mano Nera» sbarcò a Palermo dove fu assassinato il 12 marzo 1909, in piazza Marina.
Il prozio di Palazzotto fu indicato e processato come esecutore dell’omicidio, insieme al presunto mandante «don» Vito Cascio Ferro, il padrino che si muoveva tra le due sponde dell’Atlantico. Furono assolti entrambi, ma dopo oltre un secolo il pronipote ne certifica la colpevolezza. Vere o false che siano le sue informazioni, quel che conta per il giovane rampollo di Cosa nostra è esibire una discendenza assassina di rango, tanto che l’amico è costretto a ribattere coi propri parenti elencati nei libri e nei grandi processi di mafia.
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Ma non c’è solo il nome di Joe Petrosino a richiamare la storia, nell’operazione «Apocalisse». Tra le persone arrestate dalla Squadra mobile palermitana spicca Girolamo Biondino, fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina arrestato insieme al «capo dei capi» il 15 gennaio 1993. Da allora Salvatore è in galera, mentre Girolamo ne era uscito da qualche tempo, e fino a due mesi fa scontava un residuo pena in una casa di lavoro.
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Cercava di comportarsi come un semplice pensionato, ma secondo gli inquirenti gestiva il «mandamento» dei quartieri Tommaso Natale e Resuttana. Un cognome pesante anche il suo, vicinissimo al gotha corleonese, che conferma l’affermazione del procuratore Messineo: «La mafia rinasce dalle proprie ceneri». Anche se è costretta ad affidarsi a giovani con sempre meno esperienza criminale (a volte a dispetto delle tradizioni familiari), oppure a «drogati» o «scappati di casa», come si lamenta un altro intercettato. Chissà che ne avrebbe detto «don» Vito Cascio Ferro, o qualche antenato dei «picciotti» arrestati ieri. O Joe Petrosino.
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