sotto copertura

"LA PAURA C'È, NON SI PUÒ NEGARE. MA NON DEVE TRASPARIRE. AI CRIMINALI NON DEVI FARGLI CAPIRE NULLA" - LA DIFFICILE VITA DI UN POLIZIOTTO SOTTO COPERTURA: "AVERE UNA FAMIGLIA? IMPOSSIBILE. NEMMENO UNA FIDANZATA. MOGLIE E FIGLI POSSONO PORTARE A PENSARE AD ALTRO. E QUESTO OVVIAMENTE NON VA BENE PERCHÉ DURANTE LE OPERAZIONI SI RISCHIA LA VITA" - "I CRIMINALI FANNO QUEL CHE FANNO PER MESTIERE. IO INDOSSO UNA MASCHERA. SE NON SEI BRAVO, QUELLI SI ACCORGONO CHE DAVANTI UN POLIZIOTTO..."

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa”

 

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Vivere con la paura addosso di essere scoperti. Senza potersi permettere il lusso di una propria vita. Indossando una maschera e sperando di farla franca. Poi, quando tutto è finito e i buoni trionfano, nemmeno la soddisfazione di poterlo raccontare agli amici, perché nessuno deve sapere chi sei veramente.

 

È la straniante realtà degli agenti "undercover", quelli che si infiltrano nelle organizzazioni criminali. Un gruppo selezionatissimo di cui si parla il meno possibile. E così, nel giorno in cui a Roma in piazza del Popolo la Polizia festeggia il 173° anniversario della fondazione, quando i loro colleghi sfilano con orgoglio, gli "undercover" possono solo incassare la stretta di mano dei pochi dirigenti che conoscono le segrete cose. [...]

 

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Agente Mario, cominciamo dall'inizio. Da quand'è in polizia e com'è finito a fare operazioni sotto copertura?

«Vesto la divisa da 13 anni e da 8 opero come "undercover". Ho superato una selezione alla Direzione centrale antidroga, poi ho fatto un corso di formazione, e ho iniziato. Dapprima cose semplici, tipo infiltrarsi in una piccola piazza di spaccio.

 

Poi operazioni sempre più complicate. È come tutte le cose nella vita: si impara un passo alla volta, studiando molto, e ragionando sugli errori. Ci vuole comunque una buona palestra. Non è un mestiere che si improvvisa».

 

Non le è mai capitato di improvvisare?

«Certo. Capita sempre il momento in cui devi inventarti qualcosa. Ma la cosa funziona se è un buon mix. Molto studio che precede ogni operazione; del target devi sapere il più possibile e ci sono mesi di preparazione prima di iniziare. Poi la "leggenda", cioè la figura che vai ad impersonare e che dev'essere credibile per gli interlocutori. Infine la squadra che ti copre le spalle».

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Otto anni di operazioni sotto copertura. La maschera cambia oppure è sempre la stessa?

«La "leggenda" deve essere quella giusta, perciò raramente si cambia. Si parte dalla realtà, poi, man mano, anche in base alle esperienze pregresse, si costruisce meglio il personaggio.

 

Il personaggio non va mai completamente stravolto. Se fosse necessario, in quel caso bisogna rifletterci bene perché ogni personaggio che si crea, andando ad affrontare un nuovo target, deve reggere al 150 per cento».

 

Mario, lei ha una famiglia?

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«Impossibile. Nemmeno una fidanzata. È importante essere del tutto liberi perché durante un'attività sotto copertura la testa dev'essere completamente sgombra. È fondamentale. Immagino uno come me che ha dei bambini e una moglie… Non si può fare. Può portare, magari proprio in quel momento, a pensare ad altro. E questo ovviamente non va bene perché si rischia la vita».

 

Qual è "quel momento" a cui accenna?

«In una attività così speciale come quella sotto copertura, ogni singola fase è delicata, ma soprattutto lo è la fase iniziale, la più delicata e importante, perché lì si crea il rapporto fiduciario con il target.

 

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I criminali fanno quel che fanno per mestiere. Io ovviamente no, sono un agente di polizia. Indosso una maschera. E il personaggio lo devo interpretare per qualche mese. Se non sei bravo, quelli si accorgono che davanti hanno un falso, cioè un poliziotto.

 

Quindi, tornando alla domanda della famiglia, io non ho vincoli e anche per questo motivo reggo ancora dopo 8 anni di attività. Dopodiché, se a un certo punto subentra la legittima voglia di avere una vita privata, l'undercover non si può fare più. Bisogna fare un passo indietro».

 

Parliamo della paura, compagna di viaggio?

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«C'è, non si può negare. Soprattutto le prime volte. Ma non deve trasparire. A quelli non devi fargli capire nulla. Il tuo viso, gli occhi, le mani… Devi essere quanto più naturale possibile. È per questo motivo che la base di un personaggio è sempre la stessa. Non devi recitare troppo».

 

Di tutto questo non puoi parlare con nessuno. E tra voi agenti che operate sotto copertura?

«Sì, oltre lo psicologo che ci segue, facciamo dei seminari tra "undercover". È il momento di tirare fuori tutto».

 

Anche degli imprevisti?

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«Anche. L'imprevisto ogni tanto ci può essere. Chessò, a quelli dici dove abiti, e allora, siccome sospettano, ti entrano in casa o nella stanza di albergo. Vengono a controllarti. Te ne accorgi quando rientri, ma se sei consapevole di ciò che hai fatto, e l'hai fatto bene, vai avanti. Però, certo, quella notte non dormi». [...]

 

Tutti penseranno: ma chi glielo fa fare?

«Per passione. È una soddisfazione professionale senza pari. E mi accorgo che quando resto fuori troppo tempo, l'attività sotto copertura mi manca. [...]».

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