giorgio pietrostefani

RITRATTO DI GIORGIO PETROSTEFANI BY CAZZULLO: “I CAPI DI LOTTA CONTINUA LO CHIAMAVANO PIETROSTALIN, PER LA SUA DUREZZA. UN GIORNO DISSE A UNA FUTURA LEADER DEL FEMMINISMO ITALIANO, CHE ERA ENTRATA NELLA STANZA DELLE RIUNIONI SENZA PREAVVISO: ‘ADESSO ESCI, BUSSI, CHIEDI PERMESSO, ED ENTRI’ E A UNA SCRITTRICE DI SUCCESSO INTIMÒ DI NON PRESENTARSI PIÙ IN COLLANT, ‘CHE MI DISTRAI GLI OPERAI’” – L’OMICIDIO CALABRESI, LA LATITANZA A PARIGI E GLI INCONTRI CON D’ALEMA: “A PISA ERA SEMPRE NEL MOVIMENTO, MA NON È VERO QUELLO CHE HA RACCONTATO: NON HA MAI TIRATO UNA MOLOTOV, PERCHÉ…”

Aldo Cazzullo per www.corriere.it

 

GIORGIO PIETROSTEFANI

Quando, per gioco, i capi di Lotta Continua si divertivano a immaginare la composizione del governo dopo che fossero andati al potere, il ministero dell’Interno veniva invariabilmente assegnato a Giorgio Pietrostefani (arrestato oggi a Parigi). Un po’ perché era figlio di un prefetto.

 

Un po’ perché lo chiamavano Pietrostalin, per la sua durezza. Un giorno disse a una futura leader del femminismo italiano, che era entrata nella stanza delle riunioni senza preavviso: «Adesso esci, bussi, chiedi permesso, ed entri». E a una scrittrice di successo intimò di non presentarsi più in collant, «che mi distrai gli operai».

 

Il racconto in carcere

adriano sofri - lotta continua

In carcere, al don Bosco di Pisa dove era rinchiuso con Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani indossava una tuta con un maglione verde, e gli accadeva di passare ore in parlatorio a raccontare la sua storia. All’Aquila era compagno di scuola di Bruno Vespa. Era arrivato a Pisa da studente a diciannove anni, nel 1962, quando il Sessantotto era di là da venire.

 

«L’università fu occupata per la prima volta nel 1964. Io naturalmente votavo per proseguire l’occupazione; per riaprire l’ateneo furono mobilitati gli studenti dei collegi delle monache e gli iscritti al Pci. Così mi iscrissi al Pci pure io.

 

Ero più a sinistra, ma pensavo che bisognasse stare “dentro e contro”. Entrai anche nell’Unione goliardica: il capo era Franco Piperno, c’era anche una ragazza che sarebbe diventata mia moglie, Fiorella Farinelli. I momenti più attesi erano quando arrivavano i tre santoni: Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Toni Negri.

 

adriano sofri giorgio pietrostefani e ovidio bompressi

Non si faceva altro che parlare di classe operaia, avevamo la religione della classe operaia, l’operaio era Dio fatto uomo, ma non ne vedevamo uno; solo qualche ex, divenuto funzionario del partito o del sindacato». «Gli operai veri, anima e sangue, li incontrammo un paio di anni dopo, quando irruppe nella nostra vita Adriano Sofri, che allora insegnava nelle scuole.

 

Ci propose di fare insieme un giornale, “Il Potere operaio”, da distribuire in tutte le fabbriche del litorale toscano. Adriano era stato espulso dal Pci; così ci facemmo cacciare tutti: “fuori e contro”, senza compromessi e mediazioni. A Pisa vivevamo in pratica a casa sua: c’erano due bambini, quindi tutto funzionava regolarmente, il frigorifero era sempre pieno, si mangiava tre volte al giorno; per noi, che a volte non sapevamo neppure dove andare a dormire, era un paradiso. In casa Sofri giravano anche i sottoproletari della stazione, che prima venivano regolarmente pestati dai paracadutisti: noi li prendemmo sotto la nostra protezione e finimmo per assorbirli».

adriano sofri nella redazione di lotta continua

 

 

La perdita dell’innocenza

«L’inizio di tutto fu la Bussola. Avevamo stampato in mezza Toscana manifesti a lutto con la scritta: “Il 31 dicembre a Viareggio faremo la festa ai padroni”. Adriano si arrabbiò molto con Paolo Brogi e con me per quella che gli pareva una caduta di stile.

 

ovidio bompressi giorgio pietrostefani

La notte di San Silvestro del 1968 ci tesero una trappola. Noi strappavamo i papillon e tiravamo i pomodori ai malcapitati che andavano a festeggiare il capodanno, qualcuno aveva riempito sacchetti di vernice rossa (altri, esagerando, di escrementi) che lanciava contro le signore in lungo. Noi tiravamo sassi ai carabinieri schierati di fronte alla Bussola. D’un tratto, su una di quelle barricate improvvisate, cadde un ragazzo.

 

Vedevamo le fiammate delle pistole, qualcuno gridò: “Sappiamo che sparate a salve, non ci fate paura!”. Invece erano proiettili veri. Soriano Ceccanti rimase paralizzato. Fiorella e altri furono arrestati e fecero mesi di carcere. Io evitai il rastrellamento nascondendomi in un cespuglio».

 

«Saccheggiammo il frigo di casa di Bobbio»

Sofri Bompressi Pietrostefani

Nel 1969 Pietrostefani è a Milano. «Non avevamo i soldi per mangiare, un giorno un compagno, Tonino Lucarelli, che era un po’ acrobata, cominciò a camminare sulle mani, e io feci la questua con il cappello. Quando esplose la rivolta di Mirafiori andai a Torino, dove c’era già Sofri, che viveva a casa di Luigi Bobbio, il figlio di Norberto, il più importante intellettuale italiano: corso Turati 63. Suonammo, ma non rispose nessuno.

 

il commissario luigi calabresi

Allora Tonino si arrampicò lungo la parete e mi aprì. Il frigo era pieno. Lo saccheggiammo. Poi arrivò Adriano che distribuì i compiti: lui a Mirafiori, Tonino al Lingotto, io a Rivalta. Partecipai alla riunione del 2 luglio, quella in cui si decise il corteo di corso Traiano. Una cosa da pazzi, l’autonomia operaia che avevamo vagheggiato con Tronti e Asor Rosa ce l’avevamo sotto gli occhi: operai che non avevano studiato, che non sapevano neppure parlare decidevano scioperi con cui bloccavano le carrozzerie Fiat, una fabbrica da 15 mila lavoratori. Ma alla battaglia di corso Traiano non partecipai: non mi è mai piaciuto fare a botte a casa d’altri».

 

Dopo le ferie, i militanti di Lotta Continua sono i primi a tornare in città. «Ci trovammo il 16 agosto al teatro Alfieri. Davano “Spartacus” di Kubrick, il film sulla rivolta degli schiavi. Ogni volta che veniva proiettato andavamo a vederlo con i compagni operai, perché era un film sulla rivoluzione. Alla fine si accesero le luci: c’eravamo tutti. Alle cinque del mattino del 17 eravamo puntuali ai cancelli delle fabbriche con il primo volantino.

 

lotta continua calabresi

Quelli di Potere Operaio si fecero le vacanze e tornarono a fine agosto; per due settimane fummo i padroni dell’assemblea operai-studenti. In fondo a un manifesto scrissi: “Vinceremo”. Adriano si arrabbiò moltissimo. Io mi difesi dicendo che pure il Che finiva così i suoi appelli. Lui invece volle che si scrivesse sempre: “La lotta continua”. Vedere buttare giù le cancellate di Mirafiori era impressionante: decine di operai che afferravano le sbarre e cominciavano a farle vibrare, sempre più forte, finché saltavano i cardini e il cancello piombava sull’asfalto in un rumore assordante…».

adriano sofri, il suo avvocato massimo di noia e giorgio pietrostefani

 

Poi Pietrostefani torna a Milano. «Passai la selezione per essere assunto all’Alfa Romeo, negando di avere la laurea in architettura e parlando dialetto abruzzese. Pensavo di partecipare alle lotte operaie dal di dentro. Rinunciai dopo piazza Fontana, quando scoprimmo che la priorità era la controinformazione, l’antifascismo, la politica».

 

Fascisti, comunisti e infiltrati al bar Magenta

A Milano Lotta Continua era forte più alla Cattolica che alla Statale. «Tutto ruotava attorno al bar Magenta, che era il bar della Cattolica, dei trafficanti e della polizia. Il proprietario era missino ma gli stavamo simpatici, ci dava il seminterrato per incontrarci e ci passava pure qualche soldo. Infiltrarci era un gioco da ragazzi, infatti le nostre riunioni erano piene di poliziotti.

renato curcio 1

 

Due si sedevano sempre accanto a me, alle manifestazioni erano puntualissimi, con spranga ed elmetto. Mi ero fatto l’idea che fossero missini pure loro. Così un giorno li feci seguire e scoprimmo che la sera andavano a dormire in caserma a Sant’Ambrogio. Li presi da parte e gli dissi: “Ragazzi vi abbiamo beccati, non venite più””.

 

«Quasi ogni settimana venivo convocato per il rito del giovedì dal questore Allitto Bonanno, che mi trattava con grande cortesia, forse perché mio padre era prefetto in carica, ad Arezzo, la città di Fanfani, contro cui facevamo una campagna durissima. Il commissario Allegra preparava il caffè e Allitto mi chiedeva: “Allora, sabato cosa succede?”.

lotta continua pisa

 

 Fino a quando, il 12 dicembre 1972, arrivammo alla contrapposizione totale. Volevamo manifestare a piazzale Loreto per il secondo anniversario di piazza Fontana. Allitto fu durissimo: “Potete fare un comizio a Città Studi. Ma attorno ci metterò tanta di quella polizia che non uscirete neanche con i carri armati”. All’uscita sfilammo praticamente in colonna, fotografati uno a uno. Un disastro».

 

L’incontro con Curcio

Molti cominciano a pensare alla clandestinità. Nella Milano dei primi anni 70 ci sono anche Renato Curcio e Alberto Franceschini, i fondatori della Brigate Rosse. Nel libro-intervista scritto con Mario Scialoja, “A viso aperto”, Curcio racconta di aver incontrato nel 1971 Pietrostefani, che gli avrebbe proposto di far confluire la sua organizzazione (che ancora non aveva ferito né rapito nessuno) dentro Lotta continua, per rafforzarne il servizio d’ordine.

 

Giorgio Pietrostefani

A un secondo incontro sarebbe stato presente anche Franceschini, ma la trattativa sarebbe finita in una rissa. Al processo Calabresi, Pietrostefani ha negato, Franceschini ha nicchiato: “Pietrostefani è più grosso di me, se mi avesse messo le mani addosso me ne ricorderei…”. Ma quando le Br sequestrano e fotografano con una pistola puntata sul viso e un cartello al collo Idalgo Macchiarini, capo del personale della Sit-Siemens, il comitato milanese di Lotta Continua scrive un volantino di approvazione: mandato di cattura per tutti. «Io ero in Germania – raccontava Pietrostefani -, ero stato dai compagni che facevano intervento tra gli operai emigrati. Tornai a Milano, vidi questo comunicato e mi arrabbiai moltissimo: “Cos’avete combinato?”.

 

Giorgio Pietrostefani

Fu un errore politico e un disastro per l’organizzazione: dovemmo tutti sparire per un po’». Il resto è storia: il 17 maggio 1972 viene assassinato il commissario Luigi Calabresi. Nell’estate 1988 verranno arrestati Ovidio Bompressi come esecutore del delitto, Leonardo Marino come complice, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani come mandanti. Pietrostefani stava per diventare amministratore delegato di un’azienda dell’Iri. Ha sempre negato ogni addebito.

 

Il racconto della latitanza parigina

alberto franceschini renato curcio

A Parigi è arrivato il 24 gennaio 2000, alla vigilia della nona sentenza, quella della condanna definitiva. «Ho quasi sessant’anni e mi tocca giocare a nascondino» diceva. Lo incontrai nell’agosto 2002. Pantaloni bianchi, camicia azzurra, giacca blu, occhiali di tartaruga. Si era avvicinato alla fede, si definiva «quasi credente», diceva che «la sinistra in Italia è rappresentata da Cofferati e dal Papa», che era ancora Wojtyla: «Sono gli unici a occuparsi dei deboli».

 

Aveva riallacciato i rapporti con Toni Negri: «Sono d’accordo con molte sue intuizioni. La fine della democrazia, l’uso autoritario delle nuove tecnologie». Dell’Italia diceva: «Mi immalinconisce lo spettacolo del qualunquismo giustizialista. Quand’ero ragazzo, il manifesto del qualunquismo giustizialista era una rivista di destra che si chiamava “Candido”, e attaccava Giacomo Mancini chiamandolo “lader”. Non era una cosa di sinistra. Berlusconi? In Francia non sarebbe mai andato al governo, qui pure per fare il parrucchiere ci vuole il diploma da parrucchiere».

Giorgio Pietrostefani - Omicidio Luigi Calabresi

 

Erano gli anni dei no global e dei girotondi, «ma Pancho Pardi e Agnoletto proprio non me li ricordo, all’epoca non contavano nulla. E quando guardo Nanni Moretti, penso che una volta avevamo Fellini e Antonioni». Aveva però un bel ricordo di Massimo D’Alema: «A Pisa era sempre nel movimento. In minoranza, magari, ma c’era: alle assemblee, alle manifestazioni. Ma non è vero quello che ha raccontato: D’Alema non ha mai tirato una molotov, perché di molotov nel Sessantotto a Pisa non ce n’erano. Al massimo uno dava una spinta a un poliziotto e l’altro si metteva a gattoni dietro di lui per farlo cadere».

 

A Parigi non aveva molti contatti con gli altri fuoriusciti: «È una pagina che dopo tanti anni andrebbe finalmente chiusa. L’hanno fatto tutti i Paesi del mondo, tranne il nostro». La cifra dell’Italia gli appariva «la viltà»: «La gente si adegua, non discute, è acritica. Non rischia, non gioca con la propria pelle, se non in autostrada. Esiste anche la viltà delle istituzioni, e io l’ho sperimentata». Il passato gli era venuto dietro. A Parigi era andato a trovarlo Erri De Luca, che era il capo del servizio d’ordine di Lotta Continua a Roma quando Pietrostefani comandava a Milano. A una mostra di Morandi gli era parso di riconoscere la Natura Morta che Giovanni Pirelli aveva staccato dal muro per donarla a Lc, «e se me la fossi tenuta anziché venderla per la causa avrei risolto tutti i miei problemi».

 

omicidio luigi calabresi a milano 17 maggio 1972

 Aveva incontrato Daniel Cohn-Bendit, e avevano rievocato quando Godard aveva donato ai giovani aspiranti rivoluzionari i soldi ricevuti per girare un western, «eravamo a Trastevere e contavamo le banconote sul materasso». In quei giorni stava leggendo un libro di Dürrenmatt, «Il sospetto», che parla della morte di un commissario di polizia. Ma qui le strade divergevano. Perché Pietrostefani, alle domande sull’omicidio, rispondeva che «la verità storica non esiste». Dürrenmatt sostiene invece, ne «La morte della Pizia», che la verità esiste, eccome; e «resiste in quanto tale se non la si tormenta».

omicidio calabresiluigi calabresiADRIANO SOFRI GIORGIO PIETROSTEFANI OVIDIO BOMPRESSI

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