BORN TO BE WILDE - LE LETTERE DEL GRANDE SCRITTORE SONO PIENE DI SPREGIUDICATEZZA E FANTASIA: “LA SOFFERENZA È POSSIBILE, E FORSE NECESSARIA, MA LA POVERTÀ, QUELLA È TERRIBILE”

Giuseppe Scaraffia per il Domenicale del “Sole 24 Ore

 

Lettere Oscar WildeLettere Oscar Wilde

In un caldo pomeriggio del 1898, Oscar Wilde fu testimone di uno strano fenomeno, mentre sedeva al Café de la Paix, uno dei più lussuosi locali parigini. La carreggiata di fronte era bagnata e un leggero vapore acqueo si alzava dal suolo. Immediatamente, tra i fumi del vapore vide un angelo d’oro che si faceva sempre più grande…In realtà era una scultura allegorica appollaiata sulla sommità dell’Opéra riflessa sulla cortina di vapore.

 

Anche se gli abiti dello scrittore, da poco scarcerato, dopo avere subito una condanna per sodomia, erano un po’ lisi e il colletto della camicia ombreggiato dall’uso, Parigi aveva conservato per lui tutto il fascino di quando l'aveva visitata prima appena sposato e poi all'apice del suo trionfo.

 

Come prova il magnifico volume delle “Lettere”, (Il Saggiatore, a cura di S. de Laude e L.Scarlini, p.1266, €.65). Sono pagine squisite, piene di vita, di spregiudicatezza e di fantasia, magicamente indenni dalla minima posa letteraria che consentono una visione a trecentosessanta gradi delle varie tappe della sua esistenza, come per esempio il complesso rapporto con l'amata capitale francese.

 

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Certo Wilde non diceva sempre la verità. Le lettere dell'ultimo soggiorno parigino sono piene di buoni propositi immancabilmente traditi. Ma esprimerli era sopratutto un modo per ricordare a se stesso come avrebbe dovuto comportarsi. D’altronde aveva dichiarato che sarebbe tornato a Parigi solo dopo avere scritto una nuova opera, mentre invece era lì imbarazzato e imbarazzante per gli amici.

 

Lo scandalo sollevato dal suo processo faceva sì che un vecchio conoscente come Gide, che un tempo aveva ammirato quell’astro inarrivabile, esempio di un’omosessualità senza sensi di colpa, cercasse di non farsi vedere al suo fianco nei caffè. In circostanze come quelle Wilde ritrovava la sua maestà: “Una volta quando incontravo Verlaine, non arrossivo di lui. Ero ricco, felice, pieno di gloria, ma sentivo che essere visto vicino a lui era un onore per me, anche quando Verlaine era ubriaco.”

 

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In seguito però aveva dovuto ricorrere a Gide per le sue ristrettezze: “Non so se mi puoi aiutare, ma se potessi prestarmi 200 franchi mi faresti felice, e con quello potrei vivere per un po’ di tempo. Come la tragedia della mia vita è diventata ignobile! La sofferenza è possibile, e forse necessaria, ma la povertà, la miseria – quella è terribile. Insudicia l’animo dell’uomo.”

 

Rassicurava gli amici, preoccupati per la sua tendenza a sperperare il poco che gli era rimasto: “Non vado in luoghi come il Café de la Paix. Pranzo in modesti ristoranti con due o tre franchi. La mia vita è piuttosto noiosa. Non posso andare in giro pavoneggiandomi: non ho né il denaro né gli abiti per farlo.”

 

Tuttavia, in barba alle sue promesse, spesso lasciava i ritrovi della bohème e tornava, come una falena attratta dalla luce che può distruggerla, al Café de la Paix dove beveva una serie di aperitivi, sperando che all’ultimo qualcuno gli pagasse il conto. Proprio davanti allo splendore artificiale di quel caffè si era svolta una scenata terribile con Bosie, l’amato quanto capriccioso e avido lord Alfred Douglas, figlio dell’uomo che l’aveva denunciato.

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“Alfred… sai quanto detesto discutere su questioni finanziari…”. “Solo quando ti riguardano, Oscar”. Ma a chi lo implorava di stargli lontano, replicava: “Lo amo e l’ho sempre amato. Mi ha rovinato la vita e per questo mi sembra di essere costretto ad amarlo sempre più”.

 

Erano lontani i tempi della sua luna di miele parigina con la giovane moglie, Constance, "una piccola Artemide seria e minuta dagli occhi viola, con folte ciocche di pesanti capelli castani che fanno reclinare come un fiore la sua testa in fiore, e meravigliose mani d'avorio che estraggono dal piano una musica così dolce che gli uccelli smettono di cantare per ascoltarla."

 

Erano così felici che un giorno un amico, in carrozza con loro, aveva confessato a Oscar di avere la tentazione di trafiggerli entrambi con la lama nascosta nel suo bastone da passeggio. Allora Wilde aveva riso e si era tenuto il bastone per ricordo, ma in seguito avrebbe considerato quella storia come un presagio delle sventure in agguato.

 

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Era già un uomo diverso quando era tornato nella capitale sette anni dopo, nel 1891, dopo avere incontrato lord Douglas. “Al mondo sembro, perché lo voglio, solo un dilettante e un dandy – non è saggio mostrare al mondo il proprio cuore – e visto che la serietà dei modi è il travestimento degli sciocchi, la follia nei suoi squisiti atteggiamenti di frivolezza, di indifferenza e di noncuranza è l’abito dell’uomo saggio. In un’età volgare come questa abbiamo tutti bisogno di maschere.”

 

Era vestito più sobriamente ed era sempre gentile e allegro. Dalla cravatta di raso nero emergeva appena una piccola perla, da una tasca dell'abito blu, a un solo petto, sbucava una copia del Figaro. Un bull-dog d'avorio coronava il bastone d'ebano, stretto dalla mano fasciata da un solido guanto, mentre sull'anulare dell'altra si stagliava un gigantesco anello episcopale, un'ametista incastonata nell'argento. Fumava sigarette egiziane oppiate dal bocchino d’oro. A tratti un sorriso impercettibile increspava le guance arrossate. Quando parlava, si copriva la bocca infantile con una mano: aveva i denti anneriti dal mercurio usato per curare la sifilide. Il suo alito sapeva d’assenzio.

 

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In uno dei suoi soggiorni parigini aveva conosciuto il giovane Marcel Proust. Forse era stato lui a suggerirgli la discreta originalità della cravatta tortora con cui Marcel, in abito da sera, nel ritratto di Jacques-Emile Blanche, sembrava "posare davanti alla mondanità parigina, senza timidezza e senza ostentazione".

 

Invitato a cena da Proust, aveva dovuto attendere il futuro scrittore in ritardo. "Il signore inglese è già qui?" aveva chiesto Marcel al cameriere. "Sì, signore, è arrivato da cinque minuti. Appena entrato in salotto, ha chiesto di andare in bagno e non ne è più uscito". Marcel si era accostato alla porta: "Mister Wilde, vi sentite bene?" "Ah, siete qui, caro Monsieur Proust" aveva risposto lo scrittore, affacciandosi dalla toilette, "Mi sento benissimo. Credevo d'avere il piacere di pranzare da solo con voi, ma mi hanno fatto accomodare in salotto e, lì in fondo, c'erano i vostri genitori, allora mi è mancato il coraggio. Addio, caro Monsieur Proust, addio...".

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Proust era rimasto molto impressionato dalla sua caduta e lo aveva descritto nella “Ricerca del tempo perduto” come un relitto, “oggi festeggiato in tutti i salotti, applaudito in tutti i teatri di Londra e domani scacciato da ogni tugurio, senza un cuscino su cui posare il capo”.

 

Mentre sullo sfondo delle lettere scorrevano ragazzi di vita descritti come opere d'arte viventi, Wilde continuava a comportarsi come un dandy. “La gente per bene, sosteneva, dovrebbe fumare sigarette col bocchino dorato o morire”. Ma ormai si sentiva più vicino alla morte che al lusso che aveva tanto amato. "La mia vita, cercava di spiegare, è come un'opera d'arte; un artista non ricomincia mai due volte la stessa cosa...a meno che non abbia fallito. La mia vita, prima di andare in prigione, non poteva essere più riuscita di così. Ora è una cosa finita".

 

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Quando un amico, inquieto sulla sua salute, gli aveva comunicato il responso del medico – senza cambiare vita sarebbe morto in pochi anni – aveva riso, prima di rispondere che non avrebbe comunque superato il secolo perchè gli inglesi non lo avrebbero tollerato. Inoltre era già stato responsabile del fallimento dell’Esposizione Universale, visto che i suoi compatrioti, appena l’avevano visto, se ne erano andati.

 

In uno degli ultimo giorni aveva raccontato che, in un sogno tremendo, “aveva cenato con i morti”. Ma era tornato di buon amore appena un amico aveva commentato: “Oscar, probabilmente sei stato la vita e l’anima del party”.

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