
IL CINEMA DEI GIUSTI - TRENT’ANNI FA ESATTI, USCIVA NELLE SALE ITALIANE “LO ZIO DI BROOKLYN”, PRIMO LUNGOMETRAGGIO DELLA DITTA PALERMITANA FRANCO MARESCO-DANIELE CIPRÌ, FILM MANIFESTO DELLA POETICA DEI CREATORI DELLA MITICA CINICO TV - “FU UN FILM CHE FECE FIBRILLARE LE MENTI E I CUORI”, MI DICE OGGI FRANCO MARESCO, CHE SI APPELLA ALLA FILMAURO PER TIRAR FUORI IL FILM DALLA NAFTALINA DOPO TRENT’ANNI E FARLO VEDERE - SENZA SOTTOTITOLI, PARLATO IN PALERMITANO STRETTISSIMO, CON ATTORI PRESI DALLA STRADA, SENZA UNA PRESENZA FEMMINILE, FU UN’OPERAZIONE SENZA PRECEDENTI, CHE EBBE MOLTI FAN ILLUSTRI… - VIDEO
Marco Giusti per Dagospia
Trent’anni fa esatti, il 13 ottobre 1995, usciva nelle sale italiane “Lo zio di Brooklyn”, primo lungometraggio della ditta palermitana Franco Maresco – Daniele Ciprì, film manifesto della poetica dei creatori della mitica Cinico Tv. Un film prodotto da Galliano Juso ma di proprietà della Filmauro di Aurelio De Laurentiis.
Diciamo che sarebbe bello se De Laurentiis, tra uno scudetto e l’altro, riuscisse a liberare il film in modo da farlo vedere alle generazioni più giovani che molto hanno gradito sia i film della coppia Ciprì-Maresco sia quelli diretti dal solo Maresco, “Belluscone”, “La mafia non è più quella di un tempo”, “Un film fatto per Bene”. Il film divise allora in due il mondo dei critici e il pubblico.
“Fu un film che fece fibrillare le menti e i cuori”, mi dice oggi Franco Maresco, che si appella alla Filmauro per tirar fuori il film dalla naftalina dopo trent’anni e farlo vedere, “Ci sono particolarmente legato. Arrivò a metà degli anni ’90, con la fine della Rai Tre di Guglielmi, la discesa in campo di Berlusconi. Sicuramente fu un Ufo, perché arrivò in un’Italia non solo cinematograficamente morta, in un panorama asfittico, come rilevò Oliver Pere, allora direttore di Locarno, che scrisse un saggio sul film”. Ebbe fan eccellenti.
Come Gianni Amelio, che lo definì un film nichilista, “Non so se sia la morte del cinema come lo conosciamo o la sua rinascita”. Mario Martone disse “Lo Zio di Brooklyn è un film straordinario. L'uso senza compromessi dei dialetti, la fotografia in bianco e nero mozzafiato, la scelta delle ambientazioni e degli attori si fondono per creare una potente dimensione poetica”. Senza sottotitoli, parlato in palermitano strettissimo, con attori non attori presi dalla strada, senza una presenza femminile, fu un’operazione senza precedenti.
“Nel film”, continua Maresco, “c’era un’allegria disperata, feroce, diciamo un’allegrezza, che era un po’ la metafora di quel che sarebbe diventata l’Italia di Berlusconi.” Per Enrico Ghezzi fu “Un film magnifico e gioioso. Una vera opera d'arte.” Mario Monicelli scrisse “Quello che amo di Ciprì e Maresco è il coraggio con cui parlano di un'Italia barbarica”.
E Marco Bellocchio “Adoro Ciprì e Maresco; li considero due geni. Sono “malati” e visionari, profondamente originali.” Toni Servillo dichiarò “Penso che in futuro guarderemo all'opera di Ciprì e Maresco non solo da una prospettiva cinematografica, ma come un vero e proprio saggio di antropologia sociale.”
Maresco ricorda che il film fu “fortemente voluto da Galliano Juso, il produttore, che dopo sei giorni di riprese dichiarò la resa, non aveva più soldi. Provò inutilmente con le banche. Alla fine cedette il film a Aurelio De Laurentiis che gli dette un assegno di 500 milioni di lire e il film rimase alla Filmauro”. L’anteprima del film organizzata dalla Filmauro a Cinecittà vide “Alla testa di tutti un entusiasta Aurelio De Laurentiis. Il pubblico era tutta l’intelligentsia del periodo, quella cioè volevamo noi, Goffredo Fofi, Enrico Ghezzi, te e Tatti Sanguinetti”. E come andò?, domando.
“Usciste dalla visione sconcertati. La prima cosa che diceste tu e Tatti fu ‘questo vuol dire darsi delle martellate sui coglioni’. Fu bello perché fece da contraltare all’estasi ghezziana-fofiana, che per la prima volta in vita loro si trovarono alla proiezione di un film concordi e d’accordo”. Ma il film fece assolutamente colpo. E venne assurdamente e duramente attaccato.
Così scrisse Pino Farinotti: «Si comincia con la sequenza di un uomo che si accoppia a un'asina. Sequenza lunga, insistita. Poi ci sono: peti, sputi, scaracchi, orina, rutti, escrementi, vomito, gente repellente. Tutto questo rappresenterebbe il degrado di Palermo. Uno dei personaggi in mutande guarda l'obiettivo e dice: "Questo film fa schifo". Verissimo”. Lo stronca anche Valerio Caprara su “Il Mattino”: “Tempi dilatati, dialetto estremo, Cottolenghi porno, orgasmi mongoloidi, beffe alla Ridolini, un sud in decomposizione che celebra l’estremo ritorno di ogni carne in polvere: un 2001 Odissea nello schifo che come orrore supremo, propone allo spettatore una borghesissima noia”.
Minchia! Ma il film fu adorato anche da Carmelo Bene, che disse “Lo zio di Brooklyn? Quello è l’unico film alla mia altezza.” A Palermo le cose presero una piega diversa. “Pensa a quello che ha significato nello specifico il film per Palermo. Un film che non nasceva dentro i tribunali, dentro i salotti borghesi dove si decidevano gli appalti e entravano i killer della mafia… Noi eravamo in un altro posto, c’era un altro umore, un’altra Palermo, rigorosamente vuota, mai vista. Nel film c’è una visione così pura, così disperata.”
A trent’anni di distanza, quindi, sarebbe bello poter festeggiare, grazie alla Filmauro e a Aurelio De Laurentiis l’uscita de “Lo zio di Brooklyn” con una copia decente che tutti, palermitani o meno possano ancora vedere.