UN EMBRIONE PER DUE - UNA DELLE DONNE CHE SI È SOTTOPOSTA, SENZA RISULTATI, ALL’INSEMINAZIONE ARTIFICIALE AL “PERTINI” GIÀ SGUAINA L’UTERO: “SE I GEMELLI SONO MIEI, LI RIVOGLIO”

Maria Corbi per "la Stampa"

Laura, la chiameremo così, ha 36 anni e un sogno: diventare mamma, stringere tra le braccia un bambino suo. Due volte tenta l'inseminazione artificiale, l'ultima il 4 dicembre quando le vengono impiantati tre embrioni di classe A. Lei ha 36 anni, il marito 42, età in cui le possibilità di portare avanti una gravidanza sono ancora alte. E loro ci sperano questa volta. Ma va male.

Quel sogno che si trasforma sempre più in ossessione, in mancanza, in delusione. E poi, domenica scorsa, la notizia ascoltata al telegiornale: al Pertini scambio di embrioni. La data è la stessa. «Mi sono sentita morire. Un tuffo al cuore e il pensiero: quegli embrioni potrebbero essere miei».

Laura non vuole aspettare, chiama un avvocato e gli dice perentoria: «Se sono miei li voglio». Oggi aspetta ancora che qualcuno la avverta di quella che per lei è più di una possibilità. Ma dall'ospedale Pertini non si fanno vivi. «Nessuno ci ha chiamati, possibile?». E parte l'esposto contro ignoti presentato ieri in Procura.

«Perché sia chiaro che vogliamo chiarezza. Non voglio i figli degli altri, ma se quegli embrioni sono miei niente e nessuno mi separerà da loro». E l'altra donna, quella che porta in grembo questi due piccoletti da ormai 4 mesi? Cosa dovrebbe fare? Partorire e consegnarle i piccoli? «La capisco, non ce l'ho con lei, mi dispiace che stia male, stiamo vivendo lo stesso dramma anche se al contrario, ma non rinuncerei mai ai miei figli».

«La mia cliente è sotto uno stress e un ansia tremende», spiega il suo avvocato, Pietro Nicotera. «Appena nasceranno se sono della mia cliente procederemo immediatamente con la richiesta di riconoscimento e affido». La donna non vuole neanche sentire gli esperti che spiegano come in Italia il figlio sia sempre della donna che lo partorisce in virtù del cordone ombelicale riconosciuto come legame biologico.

«Non c'è legge che possa tenere lontana una madre dai suoi figli. Cosa dovrei fare? Sapere che ci sono due creature mie in giro per l'Italia e ignorarle? Non vi sembra disumano e ingiusto?». La donna insiste: «La legge tutela il benessere dei bambini prima di tutto e questo passa per la loro vera famiglia. Se fossimo noi non ci potrebbe essere alternativa».

Laura, impiegata, e il marito, autista, vivono a Roma sud e sono appoggiati da tutta la famiglia. «In questo momento si sono stretti tutti intorno a noi». Per essere chiamati mamma e papà si sono sottoposti a cicli di cure lunghe e dolorose. Hanno speso tutti i loro risparmi. Ricordano bene quel 4 dicembre, il giorno della speranza, il giorno dell'inganno. «Eravamo 4 coppie» racconta Laura, in attesa.

«Me li ricordo tutti ma non so i nomi. A un certo punto mi chiamano per il trasferimento, ma poi dopo qualche minuto mi fanno uscire. Di nuovo. Mi è sembrato strano ma non ci ho fatto tanto caso. Chiamano un'altra donna e ricordo che l'anno di nascita era lo stesso e il cognome molto simile al mio».

Potrebbe essere questa l'origine della confusione, la matrice dell'errore. «Mi confidò che anche lei aveva avuto l'impianto di tre embrioni di classe A». «Così aspetto e quando chiedo a un'infermiera spiegazioni di questa attesa lei mi dice una frase con leggerezza, che allora mi colpì e oggi mi tormenta: cosa volevi che ti mettessero gli embrioni di un'altra?».

«E se fosse successo proprio questo?». Una domanda che affolla la mente, cancella ogni altra preoccupazione, annienta la quotidianità. Laura è l'unica delle quattro donne che quel 4 dicembre ha fallito: non è riuscito l'impianto degli embrioni. E fa un ragionamento: «Eravamo in 4 coppie, due di queste non hanno avuto niente da dire per cui evidentemente sono certe che i feti hanno il loro patrimonio genetico. Una ha denunciato l'errore dopo le analisi prenatali.

E poi ci sono io. A chi appartengono dunque quei due bambini? E' ragionevole pensare che siano miei. E che i loro embrioni siano stati trasferiti nel mio utero. Per cui adesso è tutto molto triste e complicato. Non c'è nessuna possibilità di rimediare, di scambiarsi i bambini una volta nati.

Sempre se si accerterà che le cose sono andate come pensiamo». Altrimenti, se quei gemelli non fossero i loro figli, Laura e il marito inizieranno immediatamente l'iter per l'adozione. Ma adesso la priorità è quella di chiarire se i loro embrioni sono nel grembo di una altra donna. Non dice mai «utero in affitto», Laura, perchè sa che le cose sono molto più complicate. Che non esiste la possibilità di dire solo «grazie» a quella donna e di riavere i piccoli una volta nati. Se ci sarà battaglia sarà durissima.

Forse per questo Laura, per adesso, non ha intenzione di chiedere un incontro con l'altra coppia nonostante siano uscite indiscrezioni in tal senso. «Sta cercando di fare ordine nella sua mente, per adesso non se ne parla, e poi non credo che possa esserci una qualche utilità se non un aumento dello stress e dell'emotività», dice l'avvocato Nicotera.

«Si aspetta che tutto venga fatto nel più breve tempo possibile per il bene di tutti. Non esiste l'ipotesi che la mia cliente possa, nel caso il dubbio si trasformi in certezza, lasciare i figli a un'altra coppia e, nonostante legga pareri autorevoli, ritengo che la legge 40 lasci una questione aperta sui possibili errori che deve essere colmata».
Il dubbio tormenta Laura, insieme alla speranza che a volte è così intensa da assomigliare alla paura.

 

 

 

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