ALTRO CHE 5 STELLE! LE 5 REGOLE DEL GURU HOWARD RHEINGOLD PER ORIENTARSI SU INTERNET

Antonio Carlucci per "l'Espresso"

Sul Web e nelle comunità virtuali c'è tutto e il suo contrario, la verità e la bugia, il bene e il male. Per questo c'è bisogno di comportamenti personali che aiutino a vivere il mondo digitale in modo produttivo. «È necessario un nuovo percorso di alfabetizzazione, come quando fu inventato il libro stampato», è l'indicazione di Howard Rheingold, 66 anni, considerato da oltre 20 anni un guru di Internet e social media e che segue dagli albori l'evoluzione della Rete e degli strumenti che consentono di accedervi e navigare.

Sono regole semplici quelle che suggerisce Rheingold e lui le mette al centro dei corsi che tiene presso le Università di Stanford e di Berkeley e alle quali ha dedicato il suo ultimo saggio, "Perché la Rete ci rende intelligenti" in uscita in Italia con Raffaello Cortina. In questo colloquio, Rheingold spiega come affrontare nel migliore dei modi il mondo della Rete e mette in guardia: il Web non è sinonimo di democrazia.

Può spiegare le cinque regole intorno alle quali ha costruito il suo saggio?
«Sono cinque modi di comportarsi e di avvicinarsi al mondo digitale e alle comunità virtuali che riassumo in: disciplina dell'attenzione, scoperta delle bufale, partecipazione, collaborazione, e intelligenza a misura di Rete. Sono cinque approcci che consentono di utilizzare la Rete come fosse una miniera di preziose informazioni e non una discarica a cielo aperto.

E sono un modo per vivere l'alfabetizzazione del Ventunesimo secolo, esattamente come fu necessaria l'alfabetizzazione di masse di cittadini quando fu inventato il libro stampato».

Qual è la differenza tra le due ere di alfabetizzazione?
«Quando ti avvicini a un libro conosci autore, editore, consulenti. Certo può contenere errori fattuali, ma è abbastanza semplice il lavoro di verifica e di critica. Oggi invece disponiamo di una quantità impressionante di strumenti di comunicazione e interrelazione attraverso la Rete, qualcosa come sei miliardi di cellulari, oltre un miliardo di smart phone, quasi tre miliardi di accessi a Internet.

Tutto ciò non garantisce in modo automatico che i singoli individui, o la società, siano in grado di distinguere e possano averne beneficio. Sappiamo che nella Rete ci sono cose negative, false informazioni, persone che si comportano male e si sono organizzate per raggiungere i loro obiettivi a scapito di altri.

E sappiamo anche che non possiamo sottoporre a controllo poliziesco tutto questo e dunque sono i comportamenti dei singoli la via migliore per utilizzare questa grande possibilità di comunicare, creare relazioni, accedere a piattaforme informative, utilizzare motori di ricerca. In poche parole, accrescere le nostre conoscenze».

Lei sottolinea la necessità di distinguere tra buona e cattiva informazione, quello che ha definito "la caccia alle bufale". Come si fa a distinguere?
«Capire chi ha messo in Rete una certa informazione è essenziale per saper distinguere. Per spiegare a mia figlia che cosa vuol dire "crap detection", la caccia alle bufale, ho digitato su un motore di ricerca Martin Luther King e le ho mostrato che tra i primi risultati ce ne era uno che annunciava "la vera indagine storica" e presentava il leader dei diritti civili come una persona losca.

Allora le ho spiegato che c'era bisogno di vedere chi avesse messe in Rete quella ricostruzione e con una breve ricerca è venuto fuori che il sito che ospitava "la vera indagine storica" era collegato alla organizzazione Stormfront, un gruppo razzista. Certo, ci vuole un po' di tempo e di pazienza, ma le fesserie è possibile individuarle».

Le cinque regole valgono solo per i neofiti?
«Sono per tutti, dallo smanettone che passa la vita in Rete al pensionato che si avvicina al mondo digitale avendo una cultura lontana mille miglia da quella contemporanea. Si tratta di essere guardinghi. Pensi quanti danni possono fare le disinformazioni che esistono in Rete riguardo a malattie, diagnosi e cure.

Oggi si hanno pochi danni se si crede alla storia presente massicciamente in Web secondo cui la guerra in Iraq cominciò perché Saddam Hussein aveva pronte all'uso armi di distruzione di massa. È molto peggio se si prende sul serio chi semina false informazioni su malattie e il modo di curarle».

Ha studiato l'evoluzione delle comunità virtuali e dei social media fin dal loro apparire. Sono in grado di sostituire comunità sociali come famiglia, amici, scuola?
«No, le comunità virtuali non saranno mai in grado di rimpiazzare il rapporto personale faccia a faccia che esisteva già prima dell'invenzione del telegrafo, del telefono o di Facebook ed è l'asse portante della nostra società.

Questi strumenti garantiscono invece la possibilità di creare comunità che altrimenti non potrebbero esistere: pensiamo alla interconnessione che si può creare tra persone colpite da malattie rare, che sono poche centinaia e che vivono in paesi diversi e che in questo modo ricevono conforto e scambiano esperienze senza dover vivere le loro difficoltà in solitudine.

Le ho fatto questo esempio, ma possiamo parlare pure dei giornalisti come degli agricoltori, che tra loro possono scambiare esperienze. Alla fine, però, scatta quasi sempre il desiderio di affiancare al rapporto nato nel social network una relazione tradizionale».

Cosa pensa del rapporto tra comunità virtuali e democrazia? Bastano poche migliaia di sì o di no espressi intorno a una persona o a un problema per dire che la Rete è espressione di democrazia piena e funziona meglio degli strumenti classici?
«Invito alla cautela chi pensa che la tecnologia abbia effetti magici in quanto tale. La Rete non è in grado di risolvere i problemi relativi alla educazione e alla politica. Quando, nel 1987, ho cominciato a studiare le comunità virtuali mi sono chiesto quali effetti avrebbero avuto sulla sfera politica, sull'azione di eleggere coloro che governano come sulle libertà individuali, sulla possibilità di incidere sulle politiche decise in materia fiscale o di sicurezza.

Con il diffondersi di Internet è accaduto che, almeno in teoria, ogni smart-phone, ogni computer può trasformarsi in un giornale, in una stazione televisiva o radio. E ci sono stati episodi positivi, dal video postato su YouTube con le bugie di un politico che hanno portato alla sua sconfitta alle elezioni sino alla mobilitazione della Primavera araba. Ma anche negativi».

A che cosa si riferisce?
«Le manifestazioni, spesso degenerate in violenza, per protestare contro le vignette su Maometto sono state organizzate attraverso gli sms. I movimenti fascisti e razzisti cercano di organizzarsi e fare proseliti con la Rete e con le comunità virtuali, oltre a seminare una quantità incredibile di false informazioni. I governi antidemocratici usano la Rete per controllare le proteste.

Ecco perché dico che il Web non è espressione di democrazia per definizione e non consente la risoluzione dei problemi solo perché esiste. La battaglia per la democrazia è storia che si ripete ogni giorno e se non si è capaci di usare al meglio gli strumenti di cui disponiamo non è detto che alla fine non possano prevalere i peggiori istinti».

È questa la ragione profonda per cui lei invita a seguire le cinque regole?
«È un modo giusto di vivere la Rete e le comunità virtuali e ritengo che siano utili a coloro che intendono sfruttare queste tecnologie per avere una vita migliore, più potere di giudizio, più capacità di capire la realtà che ci circonda. Naturalmente, le cinque regole non danno nessuna garanzia che le cattive persone diventeranno automaticamente buone».

 

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