UNO SPOT TI ACCORCIA LA VITA - I “MARLBORO MEN”, GLI ATTORI CHE PUBBLICIZZAVANO LE SIGARETTE VESTITI DA COWBOY, SONO MORTI TUTTI PER CANCRO AI POLMONI

Vittorio Zucconi per ‘La Repubblica'

Sono morti uno dopo l'altro a cavallo dell'immagine che dovevano vendere, i tre «Lone Ranger» del fumo. A modo loro vittime del lavoro, come minatori nelle miniere del tabacco stroncati dal «grisou» che aspiravano, i tre «Marlboro Men», hanno pagato il prezzo ultimo per i loro spot. L'ultimo, Eric Lawson, è morto ieri l'altro a 73 anni di «malattia polmonare ostruttiva», causata da decenni di quelle sigarette che gli avevano dato da vivere e che hanno finito per ucciderlo, come prima di lui altri due attori che avevano interpretato la stessa parte per gli spot, i cartelloni e le pagine patinate della Philip Morris.

Fumatori tutti, come vuole il codice della pubblicità che pretende dai testimonial che consumino ciò che smerciano, Eric Lawson, Wayne McLaren e David McLean erano stati i cavalieri solitari negli anni in cui i produttori arrivarono a spendere 8 miliardi di dollari l'anno (nel 1992) per convincere gli americani a fumare.

Dopo la colossale pubblicità gratuita dei GI, dei soldati che lanciavano dai carri armati stecche di sigarette - distribuite gratis - agli europei liberati e dopo gli anni delle stelle di Hollywood alla Humphrey Bogart perennemente con la cicca fra le labbra, era arrivato il momento del finto cowboy che si spinge alla frontiera ultima del proprio individualismo accendendosi una Marlboro. Lo schema della persuasione pubblicitaria, neppure tanto occulta, era sempre lo stesso.

Le agenzie sceglievano attori di seconda fila, uomini che avessero fatto parti di comprimario, o brevi apparizioni come protagonisti, possibilmente in western. Con il volto stropicciato dal vento, dal sole, dalle tempeste del Lontano West, lo spolverino e il cappello «da 5 galloni» come si chiama il copricapo del bovaro, sempre stagliato sulla cresta delle «mesas», le tavole naturali degli altipiani e naturalmente a cavallo, questi spot volevano solleticare lo spirito di indipendenza.

Eccitare la solitudine orgogliosa e ribelle alle ingiunzioni degli sceriffi della salute al modico prezzo di un pacchetto. Il sospetto, e poi via via la certezza, che quel gesto di apparente rifiuto delle convenzioni potesse uccidere, non era un impedimento, ma al contrario un incentivo. Come già aveva scoperto Vance Packard dal 1957 nel suo «Persuasori Occulti», i pubblicitari introducevano allora simboli e segnali subliminali di morte nella apparente gaiezza dei loro spot, per toccare il Death Wish, il segreto desiderio di morte che si annida dietro il più visibile istinto di sopravvivenza.

Ma senza cadere nei labirinti del subconscio, le autorità americane dopo la sentenza del medico generale che aveva raggiunto la conclusione scientifica della nocività del fumo proibirono già nel 1971 la pubblicità radiotelevisiva e cinematografica delle sigarette. Nacque allora l'idea del «Marlboro Man», del cavaliere solitario ripreso come l'icona di una Frontiera immaginaria e ormai inesistente, ma riconquistabile con una sigaretta.

Gli attori scelti, e via via uccisi dal prodotto che spingevano e che anni più tardi avrebbero tutti ripudiato, non dovevano saper recitare o parlare. Soltanto essere immagini statiche, appunto iconiche, sui billboard, i cartelloni stradali, e sulle pagine scintillati dei settimanali illustrati.

L'equivalenza fra fumo e intellettuali, diffusa in Europa soprattutto dalle pestilenziali Gauloises e Gitanes care ai poeti, ai filosofi e agli artisti maledetti francesi, era, in America, rovesciata.

La sigaretta dei Marlboro Man era la bandiera dell'anti intellettualismo, della vita semplice e rustica del pioniere, polvere, cavallo, tramonti nei grandi cieli del west, fagioli, pessimo caffè e sigaretta. L'essenza di un' «American Way of Life» che negli anni '70 e '80 seppe intercettare con diabolica abilità le spinte del femminismo.

Mentre ai maschi era proposta la mitologia del «Frontier Man», dell'avventuriero pronto a morire e uccidere in ogni saloon per una mano di poker quindi indifferente al rischio di una banale sigaretta, alle femmine «Big Tobacco» propon eva un'iconogra-fia ben diversa.

Una linea nuova di sigarette, più sottili, più leggere nel contenuto di catrame e nicotina, invadeva le pagine dei periodici femminili, da Vogue a MarieClaire. Nascevano le «Virginia
Slim», le Virginia sottili dove quella parola «slim», che significa snello, solleticava l'immancabile complesso femminile di non essere mai abbastanza magre, tramontata l'epopea della supermaggiorate.

Donne di successo, donne potenti, spiegavano alle loro sorelle che «You've come a long way, baby», hai fatto molta strada, cocca mia, per suggerire che quella sigaretta stiletto fra le dita fosse l'affermazione del femminismo, dopo i decenni di repressione, dagli anni '20.

«Suffragettes» rimava con «cigarettes» e negli '80 e '90, le fumatrici erano la maggioranza rispetto ai fumatori, fino alla scoperta dei guasti del fumo passivo e delle minacce ai bambini. La pur formidabile lobby del tabacco, uno dei pochi casi di lobby efficacemente contrastata a differenza della resa politica davanti a Big Pharma o agli spacciatori di armi da fuoco, dovette cominciare ad arrendersi, mentre, uno dopo l'altro i suoi cowboys di cartone bruciavano la loro vita, nei letti d'ospedale del West.

 

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