IN AREA IL TUFFO È DI RIGORE: IL PENSIERO FORTE DEL “FILOSOFO” PINILLA

1. IN AREA IL TUFFO È DI RIGORE
Gabriele Romagnoli per "La Repubblica"

Da Eraclito a Pinilla il passo è breve. Per unire un filosofo greco vissuto a cavallo del quinto secolo avanti Cristo e un calciatore cileno trapiantato in Italia due millenni e rotti più tardi basta lo slancio che permette di entrare in area di rigore e riaffermare quel principio di (non) contraddizione che ha impegnato alcune delle migliori menti umane: da Aristotele, che se ne occupa nel quarto libro della Metafisica, passando per Hegel e Marx, arrivando trionfalmente a Pinilla ai microfoni di Sky nel dopopartita.

Sosteneva Eraclito che è la logica degli opposti a muovere il mondo. Ribatteva Aristotele che una cosa è o non è, tertium non datur. Rilevava Marx, con il suo materialismo dialettico, che tocca alla Storia farsi carico delle contraddizioni e risolverle. E mo' arriva Pinilla. Che potrebbe cavarsela facilmente. Il contatto con il "difensore" interista Silvestre era da rigore? «Mah, giudicate voi, l'arbitro ha fischiato... » .

E in suo soccorso poteva citare il positivista Boskov: «Rigore è quando arbitro dà». Invece ha voluto spiegare, farci riflettere: «Appena ho sentito il tocco mi sono buttato. Perché il rigore è rigore». Ti hanno falciato o ti sei tuffato? Hai subito fallo o hai simulato? Pinilla rifiuta di cadere nella trappola dei distinguo, cara al pensiero debole.

La sua unica postilla chiama in causa un'etica relativista e quindi totalmente contemporanea: «Quando ti toccano in area, l'attaccante deve essere anche bravo a capire la giocata». Ovvero: buttati, mal che vada prendi un'ammonizione; ben che vada, un rigore. Ti han toccato? Ti sei buttato? Che contraddizione c'è? Tutto si tiene. Il rigore è rigore.

Pinilla ha affinato il suo pensiero nell'unica scuola riconosciuta: quella del mondo. L'ha
visto quasi tutto. Era in Italia già a 19 anni, proprio all'Inter. E non si può pretendere che la dirigenza immaginasse che sarebbe tornato utile un decennio dopo: quelli sbagliano i rifornimenti da gennaio per aprile.

Dopodiché il cileno ha voluto farsi un lungo giro per approfondire le sue conoscenze. Ha cominciato da Verona, sponda Chievo, dove ha soggiaciuto a tentazioni epicuree: infilava fette di prosciutto nelle tasche dei compagni e svuotava anche i loro bicchieri. Si è confrontato con la tradizione scozzese.

Ha allargato i suoi orizzonti in Spagna, Portogallo, Brasile. Poi ha cercato di tornare alla fonte, alla culla della filosofia: la Grecia. La tappa di avvicinamento è stata Cipro, il mitologico Apollon di Limassol. Infine il sospirato provino nella serie cadetta ellenica. Bocciato.

Per disperazione si buttò su cibo e bevande. Fu così che si presentò sovrappeso all'ultimo appuntamento con il destino: il ritiro del Grosseto a Nocera Umbra. «Ti ho preso un centravanti», disse il presidente, che commerciava in pecore. «A me sembran due», ribatté l'allenatore.

Tuttavia vide un potenziale, si mise al lavoro e ne trasse una cannoniere che attirò l'attenzione di Zamparini. Il giocatore c'era. L'uomo aveva un paio di problemi. Il primo fu risolto in una clinica per disintossicazioni a Marbella. Il secondo, quel difficile rapporto con l'esistenza di una sola possibile verità, permaneva: ma ciascuno ha la propria filosofia.

Quando fu accusato di intrattenere una relazione con la moglie di un compagno di squadra, Pinilla rimase sul vago: se ti toccano bisogna esser bravi a capire etc. Quando videro l'auto di lei sotto casa sua, la signora giurò di averla prestata al fratello e lui che avevano guardato insieme "Il Re Leone", in dvd.

La verità è opinabile anche dopo la moviola, ma non occorre il fermo immagine per comprenderla. Durante l'estenuante dibattito sulla vicenda Noemi- Papi, l'ha toccata-non l'ha toccata, Massimo D'Alema tagliò corto con una considerazione che sussume millenni di speculazione sul senso delle cose: «Vabbè, grosso modo s'è capito... ». Pinilla ci ha girato intorno, ma, vabbè, grosso modo s'è capito.

Resta un'ultima considerazione. Il cileno è un attaccante, gioca per una squadra di calcio, che ha una dirigenza e un pubblico. Che cosa gli viene richiesto? Di segnare, come può. Riesce difficile immaginare, nella logica degli opposti, una scena in cui Silvestre tocca Pinilla ma quello stoicamente resta in piedi, poi calcia fuori, riceve i complimenti del presidente Cellino e la domenica successiva la curva espone lo striscione: "Mauricio grazie di resistere".

Due millenni e rotti dopo Eraclito ha battuto Aristotele due a zero (il secondo gol, su rigore inesistente).

2. QUELLI CHE SI TUFFANO, DA CHIARUGI A PINILLA
Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano"

Per luciano chiarugi, il Cavallo Pazzo che tra Firenze, Napoli e Milano, al manicomio mandò più di un arbitro, si mosse anche la lingua italiana. Un neologismo coniato per lui solo, "chiarugismo", che elevava la particolare abilità del tuffo nella piscina dei 16 metri d'area a vera e propria arte.

In epoca di moviole mute e processi silenti, a Chiarugi capitava di spesso di crollare al suolo, rialzarsi e ottenere in premio il calcio di rigore. Poi anche gli osservatori più benevoli se ne accorsero e iniziò la persecuzione. Più Chiarugi provava a mondare il passato, comportarsi bene, stramazzare a terra soltanto se falciato, più i direttori di gara, suggestionati dai precedenti, si rifiutavano di credergli.

Il pregiudizio lo inseguì fin sul ciglio dei 40 anni, quando tra Massa e la periferia della quarta serie, la Freccia di Ponsacco spendeva le ultime lire di una carriera declinante. Lo brutalizzavano e gli uomini in maglia nera, il fischietto in bocca e lo sguardo severo lo rampognavano bonariamente come raccontò lui stesso: "Chiarugi, ormai sei conosciuto, non ti è riuscito bene questo tuffo, non hai ancora imparato a farlo, sei anziano, comportati da persona seria" .

Luciano reagiva: "Io allora mi rialzavo e gli dicevo: arbitro, guardami in faccia, la vedi la fatica che faccio per giocare ancora?" più per se stesso che per la squadra. Ammettere è sconveniente e chissà che a Mauricio Pinilla, cileno di pensiero rapido a furbizia attiva, non appaia in sogno un tardivo pentimento.

Gli costerà nel tempo, la candida dichiarazione al termine di Cagliari-Inter "Mi sono buttato, un attaccante deve essere bravo a capire il momento, in area quando è rigore è rigore". Come a tutti gli emuli di Chiarugi nell'ultimo trentennio di calcio italiano. Checco Moriero, ad esempio. Ottenne un rigore generoso, si spinse a una mezza confessione e la domenica dopo venne espulso. Lo difese Carletto Mazzone: "Finiamola con questa storia, Moriero come cascatore non vale una lira. In tutta la sua carriera ha preso due rigori".

Si fermò lì, in effetti, superato da altri nomi, da Silenzi a Casiraghi, da Pippo Inzaghi a Gilardino, finito persino nella classifica del britannico Mirror, al settimo posto, per un carpiato in terra scozzese, in un Celtic-Milan di Champions del 2007. Da Simeone a Cristiano Ronaldo, dal tedesco Meier del Colina (primatista della specialità) fino a Busquets e Jürgen Klinsmann, nelle spire della critica e nella rete della riprovazione si sono incagliati in tanti. Chiarugi può stare tranquillo.

Paolo Casarin, fuori tempo massimo, lo assolse. Emiliano Mondonico andò oltre difendendo l'intera categoria: "Cascatori? No, padroni dell'area. I difensori hanno tutto il resto del campo per vendicarsi". E il "Mondo", uno vero, non diceva il falso.

 

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