LEROY ABDICA: ''SONO STANCO DI RECITARE. LE COSE FINISCONO. IMMALINCONIRSI E’ INUTILE - GASSMAN CON ME FU SPIETATO: ‘SEI SOLO UN PICCOLO ATTORE DI PROVINCIA’, DICEVA. CHISSÀ, MAGARI AVEVA RAGIONE"

Malcom Pagani e Fabrizio Corallo per il “Fatto Quotidiano”

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Mozzo, lavapiatti, benzinaio, allevatore di bestiame, manovale all’aeroporto di Tahiti, volontario in Indocina e tenente in Algeria con le mostrine dell’Esercito francese, disboscatore di giungla in Costa Rica, mangiafuoco nelle carovane circensi, allevatore di tartarughe, fumatore occasionale di oppio ad Hanoi, viaggiatore di confine tra Malesia, Singapore, Colombia e Venezuela, autostoppista in America:

 

“La percorsi tutta nel 1947 chiedendo passaggi per strada alla Kerouac, ventimila chilometri in pochi mesi”, paracadutista nei cieli dell’Afghanistan e presenza scenica in più di duecentoventi film. Per l’unico che non ha girato, quello sulla sua vita, mancano tempo e voglia: “Di recitare sono stanco, di fare il protagonista ancor di più.

A ottobre avrò 85 anni e avendo affrontato l’esistenza intensamente, posso considerarmi soddisfatto. Le cose finiscono. Bisogna capirlo e saperlo accettare”.

 

Non diversamente da Alberto Arbasino, Philippe Leroy sa che in Italia, una volta ricevuta la corona di “brillante promessa”, si finisce per occupare con una certa regolarità il trono dei soliti stronzi. Lui, venerato maestro, non si è mai sentito: “Ho sempre paragonato la carriera di un attore al passaggio di una cometa che sale lentamente e poi sparisce dietro l’orizzonte. Esistono quattro fasi.

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Nella prima sei giovane e belloccio, la gente non conosce il tuo nome, desti simpatia e curiosità. Nella seconda ti incontrano per strada, ti trattano come uno di famiglia e con divertito stupore ti chiedono se possono farsi una foto con te. Nella terza titubano, confondendoti con qualcun altro: ‘Non trovi che questo vecchio tizio somigli a Leroy, lo

 

Yanez di Sandokan?’. Nella quarta sei un confuso frammento, un ricordo indistinto. Ti hanno visto, ma non sanno dove. Io credo che le cose vadano esattamente così e ho imparato a non farmi ferire dall’oblìo. Sparire dall’immaginario collettivo è normale, succede, immalinconirsi è inutile”.

 

Da molti anni, con la sua faccia in prestito, le rughe e i racconti salgariani di uno che il mondo l’ha visto davvero, il conte Philippe Leroy-Beaulieu vive con la moglie Silvia Tortora, figlia di Enzo, e i due ‘eredi’ Filippo e Michelle in un vecchio casale nella campagna che osserva Roma con timore. Nel borgo di Isola Farnese arrivò al termine degli ’80: “Abbiamo ridato luce a una rovina e non abbiamo ancora finito” e da allora, non se n’è più andato.

 

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Ride spesso, fuma il giusto, impreca se non si ricorda un nome: “Oh, putain ”, promette più a se stesso che a chi lo ascolta che la conversazione resterà la sua ultima intervista: “Ormai faccio certe cose più per dovere che per gusto e parlare di me mi sembra assurdo. Non l’ho mai fatto, neanche con i miei figli.

 

Quel che è stato loro padre, l’hanno saputo da un libro”. Leroy l’ha scritto nel 2012 per l’editore Campanotto intitolandolo Profumi : “È quasi un testamento. Dentro ci sono gli odori che ho annusato, le atmosfere che ho amato, i fratelli acquisiti che ho incontrato per la via”.

 

Sono stati più importanti delle eredità familiari?

Molto di più. Studiavo poco e male e presto si capì che non avrei onorato il buon nome del casato. I parenti mi consideravano un buono a nulla. Una persona come me, nella mia famiglia non c’era mai stata.

 

Quando all’epoca di De Gaulle, per aver osato mettersi contro il Generale, mio padre, mio nonno e mio fratello, tra un esilio e un arresto, ebbero serissimi problemi, io venni nascosto in collegio dai Gesuiti a Montpellier. La vita monacale però non faceva per me. Quelli erano pazzi. Tu volevi uscire la domenica e loro pretendevano di confessarti. Esasperato dall’ennesimo sermone tagliai la corda.

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E si imbarcò come mozzo a 17 anni.

Quando il treno passa, bisogna prenderlo senza sapere dove si scende. L’ho sempre fatto, salendo a bordo delle avventure più improbabili e non me ne sono mai pentito. Ho sbagliato tanto, fatto molti errori e, per campare, ho interpretato anche un’infinità di film bruttissimi.

 

Ma non sbaglia solo chi si nasconde e io di fare lo struzzo non avevo nessuna voglia. Mi pareva che la vita fosse un inno al rischio e alla scoperta. Senza azzardare, tanto valeva morire.

 

E lei ha azzardato.

In un’epoca in cui ogni cosa, a iniziare dal viaggio, era più facile di oggi. A volte è andata bene, altre male, altre ancora malissimo. La ruota gira. Io comunque sono troppo credulone. Troppo buono. E alla fine mi faccio sempre fregare.

Proprio sempre?

Sempre, sempre, sempre. È la mia natura. Non ci posso fare niente.

 

 

È strano sentirglielo dire. Prima di diventare attore lei ha fatto la guerra in Indocina e in Algeria. In luoghi difficili.

CHARLES DE GAULLECHARLES DE GAULLE

Ho combattuto per quello in cui credevo. Pensavo fosse giusto e non essendo un vigliacco, non mi sono tirato indietro.

 

E in cosa credeva?

Non nel colonialismo né nello sciovinismo, ma nella Francia. Nei suoi diritti, anche territoriali. Nei giorni dell’indipendenza dell’Algeria mi sentii tradito da De Gaulle e mi misi dall’altra parte della barricata.

 

Per questa ragione, mentendo, mi hanno dato del fascista e invece io sono soltanto francese fino alla punta dei capelli. Delle 13 legioni d’onore della mia famiglia, due le ho guadagnate io. Sul campo. Il 14 luglio espongo ancora la bandiera.

 

L’altra bandiera della sua vita è stata quella italiana.

Per le mie posizioni dissenzienti venni schedato e dovetti scegliere tra emigrare in Italia o fuggire in Belgio. Tra le due destinazioni, non dubitai un solo secondo. Il primo lavoro vero, in realtà una paradisiaca vacanza pagata a Positano, me lo offrì Vittorio Caprioli in Leoni al sole. Lo incontrai in un bar al centro di Roma e venni arruolato in due minuti.

FRANCA VALERIFRANCA VALERI

 

Lo conosceva già?

Vittorio lo avevo cono sciuto all’ epoca del Teatro dei Gobbi, in Francia,con Franca Valeri. Caprioli mi aveva visto al cinema, dove ero arrivato per caso, grazie al mio amico Jean Becker. Jean mi aveva presentato il padre Jacques e dal nulla, insieme ad altri attori non professionisti, mi ero trovato al centro di un film cult.

 

Il buco di Jacques Becker, anno 1959.

 Centinaia di inquadrature nello spazio angusto di una cella. Il film di un regista con molto talento che a suo modo mi cambiò la vita. Dopo Il Buco e Leoni al sole vennero molti altri film. Ho qualche lampo: Sette uomini d’oro e Le ore nude di Vicario, Senilità  di Bolognini, Senza sapere niente di lei di Comencini con Paola Pitagora, ma vi dico la verità: ne ho fatti troppi, come vi ho detto alcuni sono orrendi, in molti altri lavori a non essere ancora pronto ero proprio io e i titoli di tutte le zingarate a cui ho partecipato non me li ricordo più.

 

Il primo vero incontro importante?

 Quello con il mio maestro, Renato Castellani. Mi offrì di fare Da Vinci ne La vita di Leonardo per la Rai e mi fece capire che, fino ad allora in scena avevo messo solo l’ istinto: ‘ C’ è un enorme lavoro da fare, sei pronto?’ .

 

Lei era pronto?

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Neanche un po’. Interpretare Leonardo mi pareva impossibile. Era come chiedere a un italiano di fare Napoleone. Avevo tanti dubbi, a iniziare dalla sconsolante povertà della mia cultura rinascimentale. Castellani mi sostenne. Mi pungolò. Mi spronò a guardarmi dentro. Fu profetico: ‘Vedrai, ti porterai dietro per tutta la vita i tic di Leonardo’.

 

Aveva ragione?

Di più. Per un anno e mezzo non pensai ad altro e alla fine alcune cose, tra cui il piacere della solitudine, mi rimasero attaccate addosso. Il lavoro fu estenuante. All’epoca non c’erano i sindacati. Mi alzavo alle 5 del mattino e tornavo a casa, trasfigurato, alle 22. De La vita di Leonardo vennero prodotte cinque puntate e il film, solo per dare la cifra complessiva del successo dell’operazione, fu venduto in 83 paesi.

 

Proprio come il Sandokan di Sergio Sollima, il padre di Stefano. Quando andò in onda la prima puntata, il 6 gennaio 1976, al piccolo schermo rimasero attaccate trenta milioni di persone.

 

Yanez sono io. È un personaggio che mi perseguita. Interpretandolo, mi sembrò di rivivere la mia vita. I sei mesi passati tra la Malesia e gli studi di Bollywood, comunque, sono stati i più straordinari di tutta la mia carriera. Nell’affidarmi il ruolo, Sollima mi fece un regalo impagabile. Era geniale, allegro e fantasioso. Ogni tanto, grazie a dio, talento e simpatia coincidono. Quanto ci siamo divertiti.

kabir bedi sandokankabir bedi sandokan

 

Ovunque andassimo, in scenari da sogno, trovavamo casino, festa e tavole imbandite. Eravamo la banda Yanez. La serie era molto curata, spettacolare e aveva un soggetto che anche senza possedere la magia creativa che avevo sperimentato plasmando Leonardo e pur dovendo restare nel solco di Salgari, aveva infinite possibilità di riscrittura in corso d’opera.

 

Essere Yanez de Gomera, il saggio e nobile amico del Sandokan interpretato da Kabir Bedi, cambiò il suo percorso?

Non più di quanto già da tempo non avesse fatto il vivere in Italia. Un paese che mi ha insegnato molto, a partire dall’importanza di comunicare con la gente. I parigini possono essere scostanti, alteri e spocchiosi. Gli italiani sono curiosi e anche a rischio di essere invadenti, se ti incontrano al bar, invece di guardarti dall’alto in basso una domanda te la fanno sempre. In Francia mi consideravano un brigante. Qui mi hanno accolto subito come un amico.

 

In questi anni quanto ha visto cambiare il suo paese d’adozione?

jean luc godardjean luc godard

Molto. Una volta c’era galanteria. Davanti a una porta d’ingresso, cedere il passo alla donna era una regola minima di civiltà. Oggi è già tanto se non la travolgono.

Perché?

È semplice. Ci si è abbrutiti. Si sono perse le buone maniere e, inseme all’educazione, anche tutto il resto. Non amo dire ‘ai miei tempi’ perché vivo nel presente, ma il presente non è un granché. Il potere ha voluto indebolire il pensiero e ci è riuscito. Se rincoglionisci la gente, governi con meno affanno. Però, che peccato.

 

Che peccato cosa?

Non pensare più. Mi rende triste l’idea che i cervelli vadano all’ammasso e che gli esempi che arrivano dall’alto siano deprimenti.

Parla di politica?

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No, parlo dei politici. Anche se riflettere su di loro, mentre la gente che muore di fame, si rivela un esercizio un po’ sterile. Ho visto a quanto ammonta la pensione dell’ex presidente della Repubblica italiana e mi sono sorpreso. Non mi sembra che il suo stipendio coincida con la probità. E non mi è parso di sentire: ‘Me lo abbasso per decenza’.

 

Lei quanto prende di pensione?

Milleduecentoquindici euro al mese. Dopo più di 200 film. Non sono ricco e non me ne frega niente perché quando muoiono, i ricchi diventano come tutti gli altri. Sepolti. Sotto terra. Senza ricchezze.

Non gliene importa niente, ma non le pare giusto. È corretto?

Sono stato fregato, ma sono troppo vecchio per imbracciare un Kalashnikov. Non ammetto che politici chiamati a gestire una Nazione pensino solo a beghe personali e a vantaggi economici. Mio fratello è stato sindaco e onorevole, ma i suoi taxi se li è sempre pagati da sé. Sono stato educato così, anche se mi rendo conto dell’anacronismo.

 

In che modo ha contribuito a dar forma ai personaggi che ha portato sullo schermo?

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Ribalto la domanda. Se non potevo dar vita ai personaggi, non li interpretavo. Rispetto la sceneggiatura e il lavoro del regista, ma il personaggio è mio. E ci lavoro a modo mio. Dovreste vedere le mie sceneggiature. Appunti, note, correzioni. Sembrano testi sacri. Non tutti avranno gradito. Con alcuni registi ho avuto ottimi rapporti. Con altri, pessimi o difficili.

Parliamo di questi?

Mi ricordo che con Godard feci un’enorme fatica. Stessa storia a teatro con Strehler. Forse è colpa mia, forse sono un grande egoista, forse sono scorbutico, forse soltanto timido. Non lo so.

 

Come andò con Strehler?

C’era la corte adorante, il codazzo genuflesso e due passi indietro, c’ero io. Mi sembrava di essere discreto, ma lui voleva essere costantemente adulato e protestava: ‘Non partecipi, non mi sei vicino, mi snobbi, non te ne frega niente’. Con me Giorgio fu brutale. Silvia fece da paciere. Dopo esserci conosciuti meglio, comunque, le cose con Strehler migliorarono.

D’altra parte è inevitabile, come mi diceva il direttore del Teatro Quirino, io recito con la trippa. Sono viscerale. Sul palco do tutto, ma fuori sono distratto e detesto gli attori pretenziosi che si danno un tono e discutono solo del proprio mestiere. La mia vita va oltre il set. Una volta ho incontrato Salvatores e l’ho confuso con Tornatore chiamandolo Tornatores. Ve l’ho detto, penso ad altro. Cerco aria per le mie passioni. Magari sono momentanee, ma lì per lì bruciano.

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Conosciamo quella per la scultura e per il paracadutismo.

Il paracadutismo l’ho scoperto tardi, nel 1986, e mi dispiace. Lassù, a cinquemila metri d’altezza, la terra è bellissima e non esiste nulla di più straordinario che volare. Sono stato anche con il contingente italiano in Afghanistan. I soldati erano entusiasti. Al posto del solito ministro in grisaglie sono arrivato io. E subito fotografie, casino, allegria e grandi contatti con la popolazione.

 

La situazione a Herat è surreale. Gli italiani sono bene accetti, ma quella missione, come dimostrano le tragedie di questi giorni, ha un problema di fondo. E il problema è che nessuno lo dice, ma in quelle zone l’Occidente conduce una guerra che non può vincere.

 

Torniamo alle passioni?

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Mi piace il legno. E quindi mi applico. A dire il vero non so dire se durerà. Anni fa andavo matto per le litografie, poi una notte mi ubriacai, mi sembrarono schifose e diedi fuoco a tutto. Chi può escludere che ricapiti con altri materiali?

 

Altri rapporti difficili tra vita, set e inclinazioni?

Amici attori ne ho pochissimi, registi ancora meno. Faccio prima a dirvi con chi sono andato d’accordo. Con Totò, durante La Mandragola di Lattuada, perché il principe era un vero signore. Con Lea Massari, una grandissima attrice con la quale non c’era neanche bisogno di parlare.

 

Bastava lo sguardo. E con Dirk Bogarde, durante Il portiere di notte . Accadde una cosa rarissima e stupenda. Eravamo così dentro ai nostri personaggi che continuammo a recitare anche dopo lo stop dato da Liliana Cavani. Non succede mai, fidatevi.

 

Lei ha recitato anche con Manfredi, con Gassman, con Ugo Pagliai, con Catherine Spaak, con Mastroianni, con Virna Lisi.

Se escludo Virna, donna divina e non solo per la bellezza e Marcello, uomo di rara simpatia e talento eccelso, con gli altri quattro ci siamo cordialmente ignorati. Per non dire peggio.

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Esploriamo il peggio?

Gassman fu spietato. ‘Sei solo un piccolo attore di provincia’, diceva. Chissà, magari aveva ragione.

 

Scherza?

Non ci piacevamo, capita. Ma cos’è quest’ansia di piacere a tutti? Di pacificare a tutti i costi? Ma perché? Prendete me, in questo momento mi piacciono poche cose e sogno di fuggire su un’isola deserta.

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A fare cosa?

Non lo so. Io non scappo mai, ma quando uno non capisce e non apprezza più quello che ha intorno, magari senza disturbare, forse è bene che si tolga dai piedi. 

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