“LOYOLA” VERLAINE E IL SUO “MICETTO BIONDO” RIMBAUD DIVISI DALLA POLITICA

Giuseppe Montesano per "La Repubblica"

Che siano state le dispute politiche a separare gli amanti e poeti Paul Verlaine e Arthur Rimbaud? Verlaine chiamava l'adorato Rimbaud il suo "micetto biondo", gli scriveva cose come: «ancora indegno striscio verso di te, montami sopra e calpestami...», si era fatto trafiggere il polso con un coltello da Arthur, aveva scritto con lui poesie oscene irriferibili, e, per mantenere il ragazzo dagli occhi azzurri che si rifiutava categoricamente di lavorare, il lussurioso Paul aveva costretto sua madre a dissipare in pochi anni qualcosa come settantamila euro di oggi: un amore così poteva finire per delle noiose discussioni sul suffragio universale e la Rivoluzione francese? Impossibile.

Ma a leggere Viaggio in Francia di un francese, un libro di Verlaine inedito in Italia, curato magnificamente da Giancarlo Pontiggia e pubblicato da Medusa, si direbbe proprio di sì: il soprannome di "Loyola" che Rimbaud dette a Verlaine non era affatto un gioco. In queste pagine accese e ritmate Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti; sostiene che la Rivoluzione del 1789 è la massima sciagura del Paese; sostiene che i comunardi sono pazzi; e predica non solo il "ritorno" alle radici cristiane, ma proprio alla monarchia cattolica e legittimista.

Figurarsi che discussioni tra i due innamorati! Paul e Arthur, per la noia, facevano un gioco: coprivano due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, e poi si colpivano finché non usciva sangue, proprio come amanti sadomaso in anticipo sui tempi.

Dopo, naturalmente, finivano a letto, e, con la regolarità di un orologio, Verlaine era afferrato dal pentimento. Rimbaud gli gridava allora che era solo un gesuita infame e ipocrita, Verlaine gli chiedeva di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D'Arco, Rimbaud gli rispondeva con qualche atroce bestemmia, Verlaine lo accusava di essere un comunardo incendiario e un amico del suffragio universale, e alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornavano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portava il loro tentativo di trovare un luogo adatto ai loro sogni di poeti.

Una convivenza per niente facile, tra il ragazzo che voleva il massacro dei borghesi ricchi nella Comune e aveva elogiato i rivoltosi dell'89 per aver ucciso il Re e il Verlaine che sosteneva che la democrazia è il male assoluto della modernità e che si
deve ritornare alla santità del passato. Senza qualche piccola ipocrisia come andare d'accordo con il ragazzo dagli occhi blu che la Francia ultracattolica sognata
da Verlaine-Loyola la detestava al punto da andarsene tra gli arabi a vendere armi e a leggere il Corano?

Verlaine scrisse il Viaggio in Francia solo quando Rimbaud partì per l'Africa, e probabilmente ci mise tutta la rabbia del deluso e del tradito, e tutto quello che da "Loyola" innamorato aveva in parte dovuto dissimulare per farsi accettare dal suo micio biondo e anarchico.

Ma il manoscritto delle confessioni politiche di Verlaine restò tale, persino una rivista cattolica lo rifiutò, e il libro fu pubblicato dopo la morte di Verlaine: peccato, perché la prosa risentita e anomala di Verlaine, il suo furore dolce e la sua frivolezza retorica sono affascinanti.

Del resto allora tutti sapevano che Verlaine, che scriveva poesie cristianissime e panegirici della Vergine, era però sempre l'uomo che conviveva con prostitute e ragazzi, e che pochi anni prima aveva sbattuto il figlio nato da poco con la testa sul muro e tentato di strangolare sua moglie perché si rifiutava di dargli i soldi da sperperare con Arthur.

Verlaine era questo, una contraddizione vivente e un cuore tortuoso, e a tratti un poeta che cantava come nessuno aveva cantato prima la vita "semplice e tranquilla" che è vicinissima ma che sempre sfugge, la leggerezza ebbra degli amanti vagabondi in fuga dal mondo, i trasalimenti magici e impercettibili della natura: «Nell'erba nera i Kobolds vanno; il vento profondo piange, si direbbe... ». E il suo inimitabile tono, come il brivido vocale di una Callas erotica, ci arriva al di là della sua catastrofe personale: e trafigge con dolcezza, ancora.

2. LA FRANCIA REPUBBLICANA È ORMAI RIMASTA SENZA DIO
Paul Verlaine (traduzione di Luana Salvarani)

Ahimè! tutto sembra finito, strafinito per la Francia di oggi! Le disfatte, così eloquenti, del 1870-71 sembrano aver parlato ai sordi ed è da allora che fa data questa recrudescenza del male e del peggio, che segnalerà la nostra epoca all'orrore della posterità.

L'empietà fa progressi spaventosi, di concerto con l'idea repubblicana, come l'hanno intesa i più perduti uomini della prima rivoluzione; e mai la demagogia, per un attimo repressa - ferocemente e male - con la poca energia che restava alla borghesia, personificata da quel deplorevole Thiers, mai la bassa demagogia è stata sull'orlo di una tale vittoria.

L'egoismo di chi ne gode attualmente al potere, in tutta l'irresponsabilità di un potere che disonora in primo luogo l'idea di autorità, la duplicità di giorno in giorno, la menzogna della moderazione e la sfrontatezza nelle contraddizioni (d'altronde tutte arbitrarie e dispotiche) che vanno sotto il nome impertinente di opportunismo, la violenza codarda, l'esitazione brutale, tutta la paccottiglia del machiavellismo, mentre terminano la distruzione degli ultimi avamposti di una società per tre quarti precipitata, snervando, stordendo, irritando un corpo elettorale formato tutto d'inferiori, mascherano per la massa degli stolidi, degli stanchi e degli infatuati, l'abisso ormai vicino, addormentano la memoria, uccidono la preveggenza, e infine perdono, corrompono, contaminano ogni facoltà, ogni spirito di condotta e ogni vestigio dell'antica virtù!

Non c'è più rispetto, non c'è più famiglia, il piacere sfrontato - che dico, la deboscia è al vertice; nessun patriottismo, nessun ideale neppure negativo; nemmeno, se non presso certi diseredati, l'eroismo empio della barricata; lo studente "orgiastico", l'operaio senz'altro "dissoluto"; la vile scheda elettorale che sostituisce, per le necessità della sommossa, il fucile infame, ma almeno franco; il denaro come unico argomento, come unica obiezione, come unica vittoria; la pigrizia e gli espedienti arraffano il pane
dell'antico lavoro - e Dio tutti i giorni è bestemmiato, sfidato, crocifisso nella sua Chiesa, schiaffeggiato nel suo Cristo, espropriato, cacciato, negato, provocato! Che tribuna e che stampa! Che gioventù e che donne -, e che paese!

Tuttavia, dato che vive ancora questa Francia orribile che hanno creato per noi, questa Francia difficile, quasi impossibile da amare, finché c'è, perché vive ancora, anche con questi capi che non fanno una testa, anche con le membra in cancrena e il sangue marcio, anche in questa atmosfera pestilenziale che le fa male, perché ha ancora forma di nazione, perché il suo nome sussiste e la sua lingua è ancora la prima d'Europa, finché, grazie a Dio, c'è il cuore, e finché questo cuore batte, finché batterà, ci sarà una Francia che può tornare la beniamina tra le nazioni e il soldato di Dio, che le ha fatto promesse quasi altrettanto solenni come quelle alla sua Chiesa.

Dunque si tratta di andare verso quel cuore, non solo con la memoria e l'immaginazione; al francese geloso dell'antico onore e della speranza sempre concessa, serve il coraggio di penetrare attraverso tutti gli ostacoli odiosi e crudeli, fino alla fonte pura e forte da cui esce questo bel sangue blu e rosso, nobili e popolo, la cui storia fu così bella, che batteva sulle tempie del genio come nei piedi della carità, come sul fianco del martire, e che poté scorrere su tutti i campi di battaglia e ovunque Dio voleva essere glorificato con una morte preziosa.

 

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