MARIO CI MANCHI - MASOLINO D’AMICO RACCONTA MONICELLI - “UNA BATTUTA PER SMONTARE L’IPOCRISIA SUI DEFUNTI, ERA “MUOIONO SOLTANTO GLI STRONZI”. AVEVA RAGIONE. LUI INFATTI NON SOPRAVVISSE A SE STESSO - QUANDO CAPÌ CHE PER FARLO AVREBBE DOVUTO CEDERE UN PO’ DELLA SUA AUTONOMIA, TOLSE IL DISTURBO, IN PERFETTA SERENITÀ. QUANDO LO TROVARONO MORTO NEL CORTILE DELLA CLINICA, SORRIDEVA”….

L' infanzia davvero eccezionale nella casa di famiglia a Roma, fra attori e registi, critici e scrittori, giornalisti, musicisti e produttori, ha ispirato al critico e docente Masolino d'Amico - figlio di Suso Cecchi, geniale sceneggiatrice, e del musicologo Fedele d'Amico, nipote di Sandro d'Amico e Emilio Cecchi un libro di preziose pennellate-amarcord, Persone speciali (Sellerio), nato da una raccolta di articoli su La Stampa, in cui rivivono Luchino Visconti, Bice Valori, Silvana Mangano, Ennio Flaiano, Anna Magnani, Alberto Sordi e Mario Monicelli, che pubblichiamo qui di seguito. A Pordenonelegge - Festa del Libro con gli Autori (dal 19 al 23 settembre) l'autore ne parlerà sabato 22 in anteprima per l'uscita del volume.

Masolino D'amico per "la Stampa"

Un aneddoto che una volta strappai a Mario Monicelli e che da allora lui ripeté volentieri riguarda la sua formazione di regista. Nel 1934, a 19 anni, Mario presentò al Festival di Venezia un film semiamatoriale girato col cugino Alberto Mondadori - I ragazzi della via Paal - che gli fruttò come premio l'ingaggio come aiuto dell'aiuto dell'aiuto in un film vero, quello che il regista boemo Gustav Machaty, trionfatore di quello stesso Festival con Estasi e le nudità di Hedy Kiesler poi Hedy Lamarr, avrebbe girato l'anno dopo a Cinecittà. Su quel set il giovane Mario fu molto colpito dalla personalità di Machaty, un creatore e un despota.

Quando gli mancava l'ispirazione e voleva concentrarsi, costui esigeva che nel teatro di posa si facesse il buio e calasse un silenzio di tomba. Tutti, interpreti e maestranze, dovevano trattenere il respiro anche per molti minuti, finché il Maestro non si riscuoteva e tornava all'azione. Subito dopo quella esperienza, Monicelli trovò lavoro in un altro film, questa volta nell'Africa italiana, dove Augusto Genina girava Lo squadrone bianco.

Genina era un romano pacioso e conciliante. Quasi con raccapriccio, Monicelli notò che non solo non impartiva disposizioni precise al direttore della fotografia, ma addirittura ne sollecitava i consigli, in base a cui talvolta modificava le proprie decisioni. Ricordando la sprezzante sicurezza del boemo, Mario compatì in segreto Genina per questa patetica arrendevolezza e mancanza di personalità.

Quando però i due film uscirono ebbe la rivelazione: Ballerine di Machaty era un disastro, e fu addirittura sbeffeggiato dai pochi spettatori; Lo squadrone bianco era, e sarebbe rimasto, una delle poche pellicole italiane davvero memorabili prodotte tra le due guerre. Imparata la lezione, Monicelli quando diventò regista non solo evitò gli atteggiamenti dell'artista dispotico e pieno di sé, ma stabilì sempre un clima cordiale con gli attori e con la troupe, badando non a imporsi ma a convincerli a collaborare.

Non che la perentorietà, al bisogno, gli facesse difetto: sapeva fare le sue scenate anche lui, e di rado tornava su una decisione presa. Ma di solito la sua arma più efficace era l'ironia. «La Loren crede al proprio mito, adesso si prende sul serio», mi scrisse una volta da New York dove girava un film con la diva.

«Per farle fare certe cose devo dirle che la Vitti, con me, le faceva». In molte situazioni l'ironia è un ottimo strumento di persuasione, tutti hanno paura del ridicolo; e proprio Monicelli regista ne diede fruttuose lezioni, per esempio, a Vittorio Gassman, che fino a una certa data aveva creduto di essere solo un attore tragico e quindi si era dato il tono che riteneva adeguato. Del resto in nessuna epoca l'ironia è stata preziosa per difendersi dal conformismo come in quella vissuta dalla generazione di Mario, che aveva sette anni quando vide sfilare le squadracce della Marcia su Roma dal balcone dei miei nonni in via Nazionale (mio nonno Silvio d'Amico era amico di suo padre Tomaso, direttore di giornale emarginato dal regime) ...

L'ironia fu da subito congeniale al talento di Monicelli, il quale esordì da regista in coppia con Steno, firmando comiche di Totò con un risvolto di denuncia sociale (Totò cerca casa, Guardie e ladri )... Ma non è della carriera di Mario che voglio parlare qui, bensì della persona. Che era molto più complessa dell'aspetto che Mario mostrava, sempre teso a evitare qualsiasi atteggiamento di prosopopea.

Fingeva orrore alla sola idea che potesse volersi far considerare un artista o che qualcuno pensasse che si dava delle arie, o peggio ancora, che facesse del cinema per parlare di sé. La sua disponibilità lo fece considerare poco ‘autore' da una critica che prendeva sul serio solo i registi che visitavano un proprio universo inconfondibile.

Ma se non assumeva mai atteggiamenti alla Machaty, Mario poteva diventare improvvisamente durissimo quando qualcuno prendeva per arrendevolezza la sua disponibilità. Il produttore Goffredo Lombardo tentò di convincerlo a togliere un'unica parolaccia dalla colonna sonora di Risate di gioia, un malinconico film con Totò e la Magnani alla fine della loro parabola che all'epoca andò malissimo e adesso è stato rivalutato fino a diventare quasi un oggetto di culto. Non erano ancora i tempi del turpiloquio dilagante, e in quel film non c'era la minima volgarità. Ma Mario fu irriducibile. Anche una sola parolaccia ma messa dove doveva stare era una questione di principio.

Mario non voleva imporre niente a nessuno, ma era di idee chiare e solide. Politicamente non era mai stato comunista, semmai votava socialista; fu anche candidato del Psi, ma la sua fu solo un'adesione di principio, a certe elezioni comunali negli Anni 60. I suoi amici se ne accorsero all'ultimo momento, ricordo che capitanati da Mario Camerini andammo di notte a cercare di incollare qualche piccolo manifesto almeno sui muri di Cinecittà.

.. Si dice che chi nasce incendiario muore pompiere, e da un antifascista poi socialista come Mario ci si sarebbe potuti aspettare una vecchiaia conservatrice, invece delle simpatie che ormai più che novantenne dichiarava per gli extraparlamentari di sinistra. Ma a cambiare non era stato lui, che credeva sempre nelle stesse cose, bensì l'arco politico.

Diventato vecchissimo come mia madre, sua grande amica, che però a differenza di lui era domesticamente accudita e protetta, Mario aveva conservato tutta la sua prontezza di spirito, e difendeva caparbiamente la sua indipendenza. La sua compagna era pronta ad aiutarlo, ma lui voleva vivere da solo, in una monocamera a un primo piano senza ascensore, raggiungibile con una scala ripida, scendendo la quale cadeva spesso.

Da diversi anni, era il suo principale punto debole, ci vedeva da un occhio solo e anche da quello molto poco; ma aveva diretto film interi senza che la troupe lo sospettasse, come quel capitano cieco di Conrad che conosce la rotta a memoria e finge di guardare la bussola.

Camminava e si muoveva dritto come il classico fuso, ostentando la sicurezza di sempre, ma soffriva molto, segretamente, di non poter quasi più leggere - era sempre stato un lettore onnivoro oltre che un insonne, abituato a passare molte ore della notte con i libri. Però non tollerava soccorsi. Per impedirgli di chiamare un taxi e aspettarlo in mezzo alla strada dovevo telefonargli che sarei passato di lì comunque, all'ora in cui veniva a cena da mia madre. Andava nei piccoli ristoranti del quartiere Monti dove abitava e dov'era popolarissimo, ma si cucinava anche da solo, magari telefonando a un amico per sapere quanto doveva restare la pasta nell'acqua calda.

Succube anch'io delle mode che imponevano all'ammirazione i geni creatori come, nel cinema, i Fellini e i Visconti, per anni lo avevo preso sottogamba come regista; quelli che fanno cose diverse l'una dall'altra, e che hanno quasi sempre successo di pubblico sono ovviamente «solo» dei bravi mestieranti. Adesso la so più lunga.

Monicelli non faceva mai nulla per mettere in mostra la sua bravura, ma era bravissimo. Sapeva sempre quello che voleva e come ottenerlo; controllava tutto, a partire dal copione, a cui collaborava sempre, e che prima di iniziare le riprese copiava tutto a matita, per imprimerselo bene nella testa. E ogni tanto era ispirato. Avete mai visto I compagni ?

Alcune sue battute per smontare la retorica sono state spesso ripetute da altri. Una, contro l'ipocrisia sui defunti in occasione dei funerali, era «Muoiono soltanto gli stronzi». Aveva ragione anche qui. Lui infatti non sopravvisse a se stesso. Quando capì che per farlo avrebbe dovuto cedere un po' della sua autonomia, e rassegnarsi a obbedire a qualcuno, colse la prima occasione per togliere il disturbo, in perfetta serenità. Quando lo trovarono morto nel cortile della clinica da cui si era eclissato, sorrideva.

 

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