macbeth michieletto

'MACBETH', RITRATTO DI FAMIGLIA IN UN INFERNO – ALBERTO MATTIOLI IN ESTASI DAVANTI ALLA "SENSAZIONALE" MESSA IN SCENA DELL'OPERA VERDIANA DA PARTE DI DAMIANO MICHIELETTO A LA FENICE – "C'E' QUELLA PERFETTA CORRISPONDENZA DI MEZZI AGLI OBIETTIVI CHE E' PROPRIA DELLA GRANDE ARTE" - VIDEO

 

 

Alberto Mattioli per “la Stampa”

 

 

MACBETH MICHIELETTO

E se la smania di potere di Macbeth e signora, anzi più signora che Macbeth, servisse a riempire il vuoto degli affetti? Se i due cercassero nell’affermazione politica una compensazione pubblica alla loro tragedia privata, la più atroce, la morte di una figlia?  

 

Shekespeare ne accenna, facendo dire alla Lady che lei ha allattato, Verdi per interposto Piave no. Ma il punto non è questo. Il punto di ogni Macbeth, «parlato» o «cantato» che sia, è cercare il perché, la molla scatenante dell’ambizione e della conseguente orgia di sangue.  

 

macbeth michieletto 8

Damiano Michieletto, regista di questo sensazionale Macbeth (di Verdi, precisiamo, anzi il più verdiano di quasi tutti quelli che abbiamo visto) d’inaugurazione della stagione della Fenice, la individua nella paternità frustrata dell’aspirante Re: tema, come si sa, molto verdiano per ragioni biografiche e non solo. Dunque già nel Preludio la coppia seppellisce una figlia, e dalla fossa si leva, agghiacciante, un palloncino legato a un filo rosso. Rosse anche le altalene, di volta in volta trono o, moltiplicate all’infinito, foresta allucinatoria.

 

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Tutte le meravigliose scene di Paolo Fantin, in realtà un’installazione che potrebbe (anzi, dovrebbe) stare in qualche Biennale, sono vuote di precisi riferimenti spazio-temporali e piene di teatro: neon che illuminano le peggiori efferatezze con una luce chirurgica, teli di plastica che diventano incubi dell’inconscio oppure orrifiche profezie («il velame del futuro», già...), sudari di oggi per le vittime delle stragi. Idem i bellissimi costumi di Carla Teti: coristi anonimamente contemporanei, cortigiane in simil Armani minimalisti, streghe senza volto, anche loro realissime ma allo stesso tempo irreali con le loro facce velate, come proiezioni dell’inconscio di chi le consulta, bambini elegantissimi e inquietanti come nei peggiori horror cinematografici. 

 

macbeth michieletto 6

E c’è una regia, se regia significa emozionarci e, insieme, obbligarci a riflettere su quel che credevamo di conoscere. Chi scrive (e la maggior parte dei pubblici del mondo) considera Michieletto uno dei principali registi d’opera contemporanei. Ma credo che questo spettacolo sia una svolta anche per lui.

 

E forse anche un problema, perché l’impressione è che con questo Macbeth Michieletto raggiunga e cristallizzi una maturità fatta di abilità tecnica spinta fino al virtuosismo e di una ricchezza di idee sempre sulla musica e sul testo, mai accanto, men che meno contro. Non sarà facile andare oltre. C’è quella perfetta corrispondenza dei mezzi agli obiettivi che è propria della grande arte. E che, come sempre in teatro, nel grande teatro, si traduce in immagini folgoranti, che prima ti turbano e poi ti obbligano a ripensarci.  

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A caso, come sorgono alla mente, tipo i ministri infernali della lady, eccone alcune. I morti avvolti nella plastica e coperti di sangue (sangue bianco, il colore del lutto infantile). Il dottore che porta alla Lady gli ansiolitici che lei getta via rabbiosa. Duncano che arriva e mette la corona in testa ai figli di Macduff e di Banco, mentre Macbeth vorrebbe anche lui coccolarli, ma la Lady lo scosta, isterica. Il figlio di Banco che si aggira fra i sicari sul suo triciclo, che poi tornerà, vuoto, durante i nuovi responsi delle streghe, mentre Macbeth sogna il massacro della famiglia di Macduff (ma è sempre un orrore «pulito», industriale, non pulp, appunto contemporaneo).

 

La foresta di altalene, raccapricciante. Nel finale, Malcolm, elegantissimo in smoking (Marcello Nardis ha anche le phisique du rôle: Marcello, come here!) sale su una di queste altalene rosse: e la storia ricomincia, sempre. Finalmente la drammaturgia si fa immagine e non, come di solito all’opera in Italia, l’immagine sostituisce o elude la drammaturgia. Capisco che possa risultare difficile, duro, spiazzante: ma se non è teatro musicale questo, allora il teatro musicale non esiste.  

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Anche perché la direzione di Myung-Whun Chung procede sontuosa sulla stessa strada. Dinamiche amplissime, ma con i fortissimi più devastanti che mantengono nettezza, precisione e perfino bellezza di suono (a proposito: ottima l’orchestra della Fenice). Accompagnamenti elastici, nervosi, incalzanti. Morbidezze e furori che si alternano senza esibizionismi di virtuosismo direttoriale, ma sempre e solo per ragioni più ancora teatrali che musicali. Il più bel finale del Primo atto ascoltato da anni, e il più bel «Patria oppressa» mai ascoltato (a ri-proposito: eccellente il coro di Claudio Marino Moretti), semplicemente sconvolgente. In una parola: Verdi. 

 

Damiano Michieletto - o

Ci sono anche i cantanti. Luca Salsi è «il» Macbeth di oggi: ha una grande voce e un’ottima tecnica. Ma quello che lo rende eccezionale è la capacità di dimenticarsene per concentrarsi tutto sulla «parola scenica».

 

Leggete la lettera dove Verdi spiega all’impresario Lanari perché per Macbeth bisogna scritturare il baritono Varesi e non il suo collega Ferri, nonostante quest’ultimo sia un cantante migliore. A Verdi interessa il personaggio, non la voce, e questo Salsi lo realizza (che poi abbia anche una voce, e che voce, è premessa necessaria ma non sufficiente).

 

La Lady di Vittoria Yeo è invece più al limite, vocalmente parlando: spiana un po’ le agilità e taglia il daccapo della sua cabaletta. Ma anche lei accenta e interpreta e recita con un’adesione e un’immedesimazione ammirevoli e avvinghianti. Bene Stefano Secco e Simon Lim, Macduff e Banco, e in generale tutti, compreso il pubblico della matinée, avvinto e trascinato da Verdi non santino del passato ma compagno di strada, catalizzatore di emozioni. Per noi, qui, oggi, adesso, tutti con il cuore in gola a vivere finalmente il teatro per quel che è, lo specchio di noi stessi, la nostra coscienza inquieta. 

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