SALVATE IL GAY SAM - IL PRIMO GIOCATORE DI FOOTBALL AMERICANO A FARE COMING OUT RISCHIA DI PERDERE IL POSTO

Vittorio Zucconi per ‘La Repubblica'

Non ce l'ha fatta più a mentire, il ragazzone texano di un metro e novanta per centodieci chili di muscoli: sulla soglia del momento più importante della sua vita, a un passo dal sogno di diventare professionista milionario di football, Michael Sam ha detto di essere gay, un'ammissione che gli costerà almeno mezzo milione di dollari.

Se dovesse comunque essere scelto da uno dei trentadue club che giocano nella National League di football americano, almeno due o tre turni sotto quello che il suo talento avrebbe giustificato, Michael, 24 anni, sarebbe il primo giocatore professionista in attività in uno dei principali sport - football, basket, baseball, hockey - ad avere proclamato la propria omosessualità.

«Il primo, forse, ma certamente non l'unico gay» ha commentato con amaro sarcasmo Deion Sanders, per anni una delle più pagate stelle del football. Nella squadra della sua università, le "Tigri" del Missouri, Sam è stato fino al gennaio scorso il migliore. Nel suo ruolo di difensore estremo nella prima linea, quella che deve reggere l'urto dei pachidermi avversari, questo figlio dello Stato più macho nell'America più virile, il Texas, è stato eletto come miglior difensore.

Fu una sua azione violenta e irresistibile, negli ultimi secondi di una finale di Coppa, a demolire la linea avversaria e bloccare un passaggio prima che la palla lasciasse la mano di chi doveva lanciarla. I pronosticatori, i talent scout che devono scegliere in quale round, dal primo al settimo, pescare i ragazzi dei college per ingaggiarli come "pro", lo avevano previsto al terzo, dunque con un'altissima probabilità di essere nella rosa finale. E un salario bel oltre il milione all'anno.

Ora tutti si domandano se la sua confessione, fatta «con la semplicità orgogliosa di chi non ha nulla da nascondere» gli costerà una discesa ai gradini inferiori, un salto al ribasso che potrebbe valere, secondo la tabella degli ingaggi per le reclute del football, almeno mezzo milione di dollari all'anno.

La Lega football, i suoi allenatori per le Tigri del Missouri, le voci ufficiali e pubbliche (tra cui Joe Biden e Michelle Obama che twitta "Non potrei essere più fiera") applaudono la sua franchezza e negano che gli orientamenti sessuali dei giocatori abbiano alcuna influenza sulla scelta. E mentono.

Lo scorso anno, un altro formidabile giocatore cresciuto nell'Università cattolica di Notre Dame, Manti Te'o vide la propria quotazione crollare quando un compagno di squadra alluse alla possibilità che fosse gay. Fu poi ingaggiato comunque, dal club di San Diego, dove ha giocato a un prezzo molto più basso.

Ma la domanda alla quale nessuno osa ancora rispondere è se il pubblico, i consumatori insaziabili di sport che hanno fatto del football l'intrattenimento televisivo più seguito e ricco d'America, sia pronto ad accettare questo insulto alla rappresentazione massima della virilità gladiatoria in elmetto e corazza.

Alcuni dirigenti, sotto anonimato, bisbigliano scuse di spogliatoi e di docce, cercano di spiegare che sarebbero i compagni di squadra a sentirsi a disagio, a non accettare quell'ingranaggio diverso nella macchina umana che è un team di football, dunque a rendere meno. Citano il caso di un giocatore dei Miami Dolphins, Jonathan Martin, tormentato dai compagni perché considerato troppo gentile nonostante i suoi 140 chili per quasi due metri.

«Quei giocatori che neppure sanno di avere diviso per anni lo stesso spogliatoio, le stesse docce, gli stessi gabinetti con compagni di squadra gay, senza rendersene conto » ride triste Chris Kluwe, già calciatore per il club del Minnesota e oggi attivista Lgbt che accusa i dirigenti di averlo cacciato per il suo essere gay.

La verità, più semplice, si riassume in una parola: marketing. La Lega Football, che da questo 2014 spartirà fra i suoi 32 club 39 miliardi di dollari, più gli incassi da biglietti e da paccottiglia assortita con i simboli della squadra, vive nel terrore che un giocatore apertamente gay sia il granello di sabbia che blocca l'ingranaggio perfetto della macchina per soldi.

I compagni di squadra di Michael Sam, che hanno diviso con lui stanze nel dormitorio, spogliatoi, trasferte, dal Missouri, sapevano tutto da tempo e non ne avevano mai parlato. «Affari suoi» ha detto il giocatore che gli stava al fianco e divideva la trincea settimanale di uno sport brutale, che già al livello del college produce più infortuni che ogni altro sport di squadra. Uno sport nel quale la carriera professionistica dei mille e seicentonovantasei eletti nei team della Nfl ha una durata media di tre anni e mezzo, secondo il sindacato dei giocatori.

Per questo - negandolo - gli scout cercano di frugare in ogni angolo della vita dei giovani prescelti per entrare nel paradiso dei pro. Dopo averli misurati e cronometrati come cavalli, domandano se gli piacciano le ragazze, se abbiano una fidanzata o una moglie, vogliono sapere chi sia lei, per avere conferma dei suoi orientamenti. Vengono tollerati nel nome del talento, della forza, della velocità, della capacità di reggere alle ferite e alle botte, reati comuni, figli seminati a caso, violazioni di regolamenti e talvolta di codici penali, ma nessuno ha mai finora accettato pubblicamente di ingaggiare un "faggot", un frocio, nello slang più volgare.

Michal Sam sarebbe, forse sarà, il primo. Lo sapremo in maggio quando la pesca, il "draft" delle nuove leve, avverrà e lui attenderà accanto al telefono aspettando e vedendo scivolare via il proprio futuro. Non sarebbe certamente il primo gay in campo o negli spogliatoi, come vari ex pro hanno rivelato a fine carriera, e come ha fatto Jason Collins, già professionista di basket, ora disoccupato. Ma sarebbe il primo a essere stato abbastanza uomo per dire al mondo di essere omosessuale.

 

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