NIENTE TASSE, SIAMO AMERICANI - SONO 1000 I MILIARDI DI DOLLARI DI PROFITTI CHE LE IMPRESE STATUNITENSI LASCIANO ALL'ESTERO PER NON PAGARE LE IMPOSTE IN USA. IL FINANZIERE RATTNER: "PRENDERSI GIOCO DEL FISCO E' IL PIU' POPOLARE SPORT DEL BUSINESS AMERICANO"

Di Antonio Carlucci per "L'Espresso"

Negli uffici della Endo International, settore farmaceutico, tutto odora di nuovo. La sede di Dublino è stata inaugurata a febbraio scorso. Ma il cuore della società è a stelle e strisce: dagli Stati Uniti viene la maggior parte del fatturato (un miliardo e 300 milioni di dollari nel 2013) e il suo vero quartier generale è a quattromila chilometri di distanza, in Pennsylvania, vicino a Filadelfia.

La scelta di sbarcare nella terra del quadrifoglio è tutta fiscale: perché pagare la corporate tax (l'imposta sugli utili delle società) negli Stati Uniti, nominalmente del 35 per cento, quando in Irlanda non va oltre il 12,5? Per la felicità di amministratori e azionisti, che vedono trasformarsi i profitti destinati al fisco in bonus o in più alti dividendi trimestrali.

Alla Endo hanno le carte in regola e nei documenti societari si legge che tutto è fatto «per lo sviluppo futuro del gruppo». La Endo ha acquistato la società irlandese Sportwell Ltd, la quale ha cambiato subito nome in New Endo, che ha comprato due società canadesi del settore farmaceutico, le ha incorporate a Dublino e a questo punto è avvenuta la fusione con la Endo americana, con nuovo domicilio fiscale irlandese.

Naturalmente, tutto ciò è perfettamente legale, anche se c'è poca etica in questo capitalismo del XXI secolo dove fusioni e acquisizioni non avvengono soltanto per ragioni di sviluppo, ma per semplici motivi fiscali. E se le società guadagnano c'è ovviamente chi ci perde: in questo caso il governo federale e i cittadini americani.

Quello della Endo non è il solo caso di acquisizione e fusione basata sul vantaggio fiscale. Il gigante farmaceutico Pfizer, valore di Borsa oltre 200 miliardi di dollari, quartier generale a New York, ha messo sul piatto 106 miliardi di dollari per impadronirsi del gigante inglese AstraZeneca, che ne vale poco meno di 100.

È un'operazione enorme che, se andasse in porto, porterebbe a Pfizer non solo nuovi prodotti e quote di mercato, ma anche una drastica riduzione delle tasse sui profitti della società: con la fusione e il nuovo domicilio fiscale in Gran Bretagna, invece di pagare il 35 per cento di tasse a New York (che già in realtà per Pfizer sono il 27 grazie a deduzioni e artifici vari) non andrebbe oltre il 21 per cento di Londra. Inoltre ci sarebbe la possibilità di utilizzare per la fusione i profitti generati dalle sedi estere di Pfizer che per legge vengono tassati solo al momento del rientro negli Stati Uniti.

Le stime più recenti fissano a mille miliardi di dollari i profitti lasciati all'estero per non pagare tasse negli Usa.«Dopo anni di sonnolenza post recessione, acquisizioni e fusioni sono al massimo livello rispetto al 2007 e sono alimentate in parte dalle società americane che vogliono abbandonare il Paese per risparmiare sulle tasse», ha scritto sul "New York Times" Steven Rattner, finanziere, legato da sempre al Partito Democratico e consulente del presidente Barack Obama.

«Prendersi gioco del sistema fiscale è il più popolare sport del business americano, in particolare per il settore farmaceutico e per i beniamini della tecnologia come Apple. In questi giorni, l'elusione fiscale sembra una strategia in grado di affermarsi, con i cittadini americani nella parte dei perdenti». Secondo alcuni dati non ufficiali dalla crisi a oggi si contano almeno due dozzine di acquisizioni e fusioni fatte per arrivare alla cosiddetta inversion tax, il nome dato alla scelta di mutare il domicilio fiscale di un'impresa statunitense.

Rattner sa perfettamente che il fenomeno è enorme dal punto di vista del buco di bilancio. Basta guardare a quello che ha in mente il colosso a stelle e strisce General Electric, un'azienda da molti anni al centro di polemiche di natura fiscale perché accusata di mantenere all'estero un'incredibile quantità di denaro frutto dei profitti della società straniere che controlla e di pagare in patria cifre assurdamente basse grazie all'aiuto di un esercito di commercialisti e fiscalisti che trovano buchi di ogni genere nella legislazione fiscale.

L'anno scorso, l'organizzazione Citizens for Tax Justice ha diffuso uno studio nel quale spiegava quanto le grandi compagnie pagano di corporate tax: e la General Electric risultava tra quelle che non sborsano neanche un dollaro. Ne sono seguite polemiche a non finire. Adesso alla GE stanno mettendo a punto un'operazione che potrebbe consentire di non pagare nulla neppure sugli enormi profitti accumulati all'estero dalla società controllate. General Electric ha infatti annunciato di voler acquisire alcuni pezzi importanti del colosso francese Alstom: vuole, in particolare, tutte le aziende del gruppo energia ed è disposta a pagare oltre 13 miliardi di dollari, da prelevare ovviamente dai 57 miliardi che ha accantonato all'estero.

Qual è la perdita complessiva del fisco americano per questa elusione fiscale? Cifre non ne esistono, ma il fenomeno ha avviato un dibattito tra gli esperti che è arrivato alla Casa Bianca e al Congresso. La questione non è secondaria: dalla California sono volate in Irlanda Jazz Pharmaceuticals e Seagate Technology; a Bermuda (dove la tassa è inesistente) hanno traslocato Marvell Technology Group, Lazard, Tower Group ed Everest Re; in Svizzera (imposta al 17,9 per cento) sono andate Garmin e Pentair; in Irlanda, tra le altre, Perrigo, Ingersoll Rand e Chiquita Fyffes.

Ecco perché Steven Rattner propone la cancellazione della corporate tax, sostituendola con aliquote più alte sugli incrementi di valore delle azioni della società quotate in Borsa: dato che, anche di fronte al cambio di domicilio fiscale, queste restano sempre quotate a Wall Street.

Quella di Rattner è la proposta più drastica per fermare il fenomeno dell'inversion tax. Il presidente Obama vorrebbe almeno rendere più difficile il cambio di domicilio fiscale e vietarlo in modo assoluto quando la società americana che fa l'acquisizione e poi il trasferimento mantiene comunque il quartier generale operativo negli Stati Uniti. Ma il Congresso, per adesso, ha fatto finta di non vedere il problema. Tra pochi mesi ci sono le elezioni di medio termine per rinnovare la Camera e un terzo del Senato. E nessuno, sia tra i repubblicani sia tra i democratici, ha voglia di perdere generosi finanziamenti da parte di società amiche.

 

 

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