DAI DIAMANTI NON NASCE NIENTE, DAI SORCI NASCONO CANZONI - NEL NUOVO LIBRO “LA VERA STORIA DI CARLO MARTELLO”, PAOLO VILLAGGIO RACCONTA (O INVENTA?) COME NACQUE LA CANZONE DI DE ANDRÉ: “QUELLA SERA, PER SCOMMESSA, FABRIZIO MANGIÒ UN TOPO MORTO. SI SENTÌ MALE, CON GETTI DI VOMITO IMMANI. UNA VOLTA A CASA, PALLIDISSIMO, SI MISE A SUONARE. TOCCA LE CORDE, PLIN PLIN... “CHE BELLO QUESTO MOTIVO”, DICO IO, “SEMBRA UNA MUSICA TROVADORICA”. FABRIZIO MI GUARDA: “TU CHE SEI UN PATITO DI STORIA MEDIEVALE, AIUTAMI A SCRIVERE LE PAROLE”…

Martino Cervo per Libero

«È mai possibile o porco di un cane/ che le avventure in codesto reame / debban risolversi tutte con grandi puttane?», si chiedeva con folgorante attualità il Carlo Martello di Fabrizio De André, spettacolare rivisitazione musicale (censurata) della storia del re cristiano che fermò i mori nel 732 a Poitiers. È mediamente noto che le parole dello straordinario racconto antieroico che immagina il sovrano che ristora i sensi con una pulzella al ritorno dalle grandi battaglie contro i musulmani (avendo perso le chiavi della cintura di castità della moglie) sono dovute a Paolo Villaggio, amico fraterno del cantautore genovese scomparso nel 1999.

Adesso però l'attore ha fatto qualcosa di più: nel libro "La vera storia di Carlo Martello"(Baldini Castoldi Dalai, 217 pagine, 17 Euro) Villaggio racconta sì a modo suo la vicenda del sovrano, ma soprattutto - nella imperdibile introduzione - la cronaca della genesi della canzone. Libero ha una specie di corresponsabilità: in un colloquio mattutino col genio inventore di Fantozzi, questo giornale chiese lumi proprio su quella canzone, e Villaggio - mesi fa - rivelò: «Ci devo fare un libro: andò così...», prima di guardare con un'occhiata delle sue l'assistente: «Ordina pure un altro cappuccino: tanto pagano loro».

Pagammo, ed ecco come andò: Villaggio è penna troppo felice per non riportare il tutto con citazione pedissequa. Si consiglia una lettura con la voce narrante dei film di Fantozzi: «Era venerdì 14 dicembre 1962, io e Fabrizio stavamo perdendo tempo a casa di un certo Repetto, un paralitico molto simpatico che trascinava la propria vita su una sedia di paglia rubata da uno sconosciuto benefattore nella chiesa di Sant'Antonio, a Boccadasse. Abitava, Repetto, in un antro al pianoterra di un caseggiato fatiscente in cui aleggiava un violentissimo odore di minestra di verza, con una portafinestra che dava su un minuscolo cortile dove si celava un'insidia micidiale: un nano di gesso che con l'oscurità diventava invisibile.

Tutte le notti si radunavano da lui branchi di fannulloni squattrinati che regolarmente si dimenticavano del nano; le conseguenze abituali erano dolorosissime ginocchiate su un maledetto cordolo di cemento coperto di muschio e leggere escoriazioni ai gomiti, ma per la gioia degli astanti c'erano anche state due fratture di zigomi, quattro di tibie e un femore della signora Gandolfi, una vedova di settantasei anni che non apparteneva alla compagnia, ma si era spinta fin lì per chiedere un consiglio».

Segue ingresso improvviso di un gatto che sotto lo sguardo della compagnia rigurgita un topo morto. De André, al solito imbenzinato, si offre per scommessa di mangiarsi il ratto in cambio di ventimila lire. Il paralitico mette i soldi sul piatto, e Fabrizio - fatto un respirone - addenta il sorcio. Poi gli viene fame, e trascina tutti a una locanda dove ordina «doppia porzione di fagiolane con le cotiche», che divora in sei minuti.

Dopo, iniziano i problemi. Getti di vomito immani, il conto, la fuga in taxi: «Fabrizio si tappa la bocca, gli esce il vomito dal naso. Si tappa il naso, dalle orecchie gli esce uno spruzzo giallo. Saliamo sulle vettura, ma dopo cinquecento metri Fabrizio vomita sulla nuca dell'artista, un vecchio di circa ottant'anni, che inchioda, afferra un coltello da cucine e si volta guardandoci con gli occhi di un rinoceronte inferocito. "Stronzi maledetti! Io vi faccio a pezzi!", urla. Spalanchiamo le portiere e scappiamo». Al rientro, «Fabrizio è pallidissimo: "Passatemi la chitarra", dice, "suonicchio un po', così mi passa...". Tocca le corde, plin plin... "Che bello questo motivo", dico io, "sembra una musica trovadorica". Fabrizio mi guarda: "Tu che sei un patito di storia medievale, aiutami a scrivere le parole". E cominciamo. Re Carlo tornava dalla guerra / lo accoglie la sua terra / cingendolo d'allor...».

Il racconto è troppo bello per crucciarsi sulla veridicità. Il resto del libro è, in fondo, un orpello, un tentativo alla Dario Fo (sua la figura di copertina) di dissacrare Carlo che alla canzone riuscì meglio. Per quanto la battaglia di Poitiers sia stata largamente ingigantita e per quanto la condotta del sovrano fosse effettivamente molto libertina, la sua leadership militare ha creato la base territoriale del Sacro Romano Impero, con quell'impasto di ideale e peccato che è il Medioevo.

Ma poco importa: quel che a Villaggio riesce perfetto è dissacrare l'iconcina pia e francescana di De André, raccontandolo - da amico infastidito dalle balle - com'era. Un genio viziato e benestante, che non aveva «nessun contatto col mondo dei quartieri poveri» (così in una storica intervista a Rolling Stones) che ha cambiato la musica senza essere un santo. Come Re Carlo ha fatto con la storia.

 

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