LA ROMA DEI GIUSTI - IL FESTIVAL COMINCIA CON UNA DELUSIONE: IL FILM DI VERONESI - QUASI UN CAPOLAVORO IL KOLOSSAL “SNOWPIERCER” DEL COREANO BONG JOON-HO

Marco Giusti per Dagospia

Primo giorno del Festival di Roma. Diciamo che si comincia quasi bene. Bene perche' "Snowpiercer" del regista di culto coreano Bong Joon-ho, gia' autore del film col mostro marino "The Host", tratto dalla graphic novel francese "Le Transperceneige" di Jean Marc Rochette e Benjamin Legrand, e co-prodotto dalla Moho Film di Park Chan-wook e' quasi un capolavoro tra gli apocalittici violenti.

Oltre che un kolossal da 38 milioni di dollari pensato per un mercato globale, cioe' Asia + Occidente, che ha gia' guadagnato in Sud Corea qualcosa come 56 milioni di dollari e si appresta a sbarcare in tutto il mondo se Harvey Weinstein non ci mette lo zampino.

Infatti e' gia' un caso internazionale che il potente Harvey Weinstein abbia deciso di distribuirlo in America tagliandolo di venti minuti e aggiungendoci una voce off, cosa che non e' affatto piaciuta a Bong Joon-ho che sta lottando per mantenere anche in America la sua versione. Quindi ottima occasione per vedere il film in versione integrale.

Siamo nel 2031 e il mondo e' precipitato in un freddo glaciale.

Gli unici sopravvissuti sono stipati su un treno sempre in corsa alla "Runaway Train" costruito da un miliardario, Wilford, Ed Harris, dove in testa ci sono i ricchi e i poveri in coda, costretti a mangiare schifezze e a vivere come bestie. Lo spiega bene il primo ministo Mason, una truccatissima Tilda Swinton con I dentoni in avanti, favolosa, il treno e' come un uomo, la testa comanda e i piedi ubbidiscono. Voi siete le scarpe. In mezzo i militari, che affogano nel sangue qualsiasi ribellione.

Lotta di classe, dunque, tra i miserabili, che hanno un capo carismatico, Gillian, il solito grande John Hurt in versione senza un braccio e senza una gamba, e un piu' giovane leader, Curtis, il notevole Chris Evans di "Captain America", pronto a mena' assieme al piu' giovane Edgar, Jamie Bell e a una mamma coraggio nera, Octavia Spence, in cerca del figlioletto che le e' stato rapito.

Quando scoppia la rivolta dalla coda il gruppo di miserabili si sposta di vagone in vagone con l'aiuto di Nam, tecnico impasticcato di kronito, una specie di droga sintetica del futuro, e di sua figlia veggente, che poi tanto veggente non e', visto che si accorge dell'arrivo dei pericoli sempre troppo tardi.

Ma il viaggio del gruppo verso la liberta', quindi verso la testa, dove e' ben chiuso il padrone, Wilford, e i suoi segreti, e' l'essenza stessa del film, con le anime in pena del terzo mondo che di vagone in vagone vedono come in un film la vita dei ricchi occidentali, il cibo che mangiano, le scuole, i medici, le saune. In qualche modo e' una specie di viaggio da emigranti poveri verso una vita che non hanno mai conosciuto, sapendo solo che sono loro, la coda, a fornire la forza lavoro dei ricchi.

Gran filmone fantastico con molte punte politiche che non perde mai nulla della sua forza e' anche il primo film girato in inglese per una coproduzione a tre Corea, Francia, America, e pensato anche per il mercato occidentale di Bong Joon-ho, da poco omaggiato al festival di Busan da una personale che ha visto tra i fan perfino Tarantino.

Le cose non vanno cosi' bene, quindi giustifico il quasi bene, col film d'apertura, fuori concorso, di questa sera, l'"L'ultima ruota del carro", diretto da Giovanni Veronesi e scritto assieme a Ugo Chiti per Fandango.

Da una parte la scelta di Veronesi e' parecchio interessante, la storia degli ultimi quarant'anni di storia italiana, e romana, vista attraverso gli occhi di una persona docile e umile, fin da bambino chiamato anche dal padre, l'ultima ruota del carro: "Tua padre qui nun conta un cazzo, e tu cinti meno di tua madre".

Cosi' il buon Ernesto, il sempre grande Elio Germano, passa da una situazione all'altra, sfiorando la storia italiana, l'omicidio di Moro ("Poro Moro"), la Roma di Schifano, un Alessandro Haber che non gli somiglia proprio per niente, i socialisti che proprio di sinistra non sono, con Sergio Ruibini che fa un maneggione craxiano in pugliese anche divertente, il berlusconismo, senza fare una piega, accettando sempre tutto o quasi e, soprattutto, non capendo mai bene dove si trova.

Un po' come nei grandi film di Luigi Zampa, il suo Ernesto, che e' un personaggio del tutto vero, come lo sono le storie del film, vive la storia italiana come uno spettatore un po' ingenuo, ma mai cattivo, pronto anche a prendere delle posizioni ("A me ste Brigate Rosse mi avrebbero pure rotto un po' i coglioni"). Da un'altra parte pero', non ci pare che sia proprio una storia esemplare e che il film abbia quella ironia alla Zampa o alla Flaiano per raccontare i dolori della nostra generazione che non ha saputo mai ribellarsi.

Nel passaggio dalla commedia al film d'autore targato Fandango, Veronesi fa una scelta coraggiosa, ma non sa gestirla fino in fondo, forse proprio per dei problemi di sceneggiatura, o per non saperci fornire un quadro storico delle storielle di Ernesto. Come in "Anni felici" di Daniele Luchetti, che aveva pero' maggiore spessore nella ricostruzione d'epoca e nella sceneggiatura, la mancanza di una storia forte, purtroppo, indebolisce l'operazione, che e' meritoria.

Gran parte degli attori, inoltre, a cominciare da Elio Gerrmano, sono bravissimi. Dall'amico del cuore Ricky Memphis che prima si lega ai socialisti e poi a Berlusconi, a Maurizio Battista come zio romano cafonissimo e invadente, da Rubini a Massimo Wertmuller che fa un padre violento e cattivo, da Ubaldo Pantani come simil Ceccherini a Virginia Raffaele che fa la compagna infedele di Ricky Memphis.

Compare anche la Pantera Rosa, alias Italo Veglianten come barista di un centro che da anni non e' piu' come l'abbiamo vissuto. Non male le apprizioni spettrali di Francesca D'Aloja e Dalila Di Lazzaro come nobili cafonal, ma lo Schifano di Haber non e' Schifano. E questo e' poco perdonabile.

Da parte sua, pero', Veronesi dimostra una voglia di prendere strade diverse dalla commedia che sembrano interessanti e, comunque, nessuno fino a ora, mi sembra, aveva tentato il racconto del craxismo legato al berlusconismo come piaga italiana. Detto questo, ovvio che Zalone faccia il pieno.

 

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