IL CINEMA DEI GIUSTI – “THE GRANDMASTER”, IL FILM SULLA STORIA DEL KUNG FU CHE HONG KONG CANDIDA ALL’OSCAR, MASSACRATO DI TAGLI NELL’EDIZIONE ITALICA, DELUDE E APPALLA

The Grandmaster di Wong Kar Wai.
Marco Giusti per Dagospia

Doveva insospettirci non poco che un kolossal del kung fu e del cinema d'autore fosse stato relegato in quattro salette romane. E che la durata, 108 minuti, non corrispondesse a quella originale, 130 minuti. Detto questo non e' facile, da questa copia distribuita dalla Bim doppiata in italiano, e che elimina cosi' la complessita', ma anche la forza della doppia lingua dell'edizione originale, mandarino e cantonese per i personaggi del nord e per quelli del sud della Cina, ridotta di 20 minuti, e quindi con palesi buchi narrativi, personaggi che scompaiono, altri non spiegati, capire se proprio queste lacune narrative, che rendono il film pesante e difficile, siano colpa della versione per l'estero (voluta sembra da Harvey Weinstein) o gia' di quella cinese, forse troppo infarcita di personaggi e avvenimenti storici per noi non troppo presenti.

Ora, "The Grandmaster", il grande film storico sul kung fu che Wong Kar Wai, celebrato regista di "In The Mood for Love", ha dedicato con ricchezza di mezzi alla vita di You Huen detto Ip Man, venerato maestro di Bruce Lee, che attraversa la storia cinese dal 1936, in mezzo a incredibili lotte tra diverse scuole di arti marziali, all'invasione giapponese, che coinvolge i vari maestri che collaborarono con il nemico, alla guerra civile che spinse le scuole d'arti marziali a rifugiarsi a Hong Kong, risulta un film non completamente riuscito anche per i critici che hanno visto la versione lunga da 130 minuti.

Perche', per come lo ha concepito Wong Kar Wai, con questi grandi duelli magistralmente coreografati, ripresi alla Sergio Leone, minuziosi fino alla goccia di sangue dei protagonisti, e' un'opera che attraversando tanti periodi storici ha bisogno di almeno quattro, cinque ore per svilupparsi con coerenza. Altrimenti rimane comunque una specie di riassunto degli eventi, storici e personali, che lanciano i duelli e una serie di situazioni, drammatiche e romantiche che girano attorno a Ip Man, raccontate sempre un po' frettolosamente.

Al punto che non abbiamo tempo per capire tutto e per affezionarci ai personaggi. Cominciando proprio con l'Ip Man dello strepitoso Tony Leung, attore feticcio di Wong Kar Wai, ancora bellissimo, e con la sua storia romantica e mai consumata con Gong Er, la figlia del maestro del Nord, che oso' sfidarlo e vincerlo con la tecnica dei 64 palmi, interpretato dalla meravigliosa Zangh Zihi.

I due si amano, anche se lui e' gia' sposato e lei e' promessa a un altro. Lo sappiamo tutti da subito, ma gli eventi storici e la vendetta che dovra' compiere la ragazza verso Ma San, il cattivo discepolo del padre che si e' messo coi giapponesi e ha ucciso il vecchio maestro dopo averne imparato tutte le tecniche (meno una, quella di "Mettere la medaglia"), impediranno ai due di vivere insieme.

E l'unico vero contatto che avranno sara' quando volando la ragazza sfiorera' il viso di Ip Man. Purtroppo questa bellissima e sfortunata storia d'amore, che ci riporta a quella altrettante romantica e non compiuta di "C'era una volta in America" di Sergio Leone, omaggiato con l'uso di due brani di Ennio Morricone tratti dal film, non trova nella costruzione di questi 130 o 108 minuti che siano lo spazio sufficiente per esplodere come dovrebbe.

Come se Wong Kar Wai, dovendo sacrificare grossi parti di storia, avesse preferito puntare sui duelli, oltre tutto affidati a star del cinema cinese, piuttosto che al lato piu' romantico del film che lo avrebbe ricondotto facilmente ai suoi territori piu' noti. Certo i due protagonisti, quando si incontrano, sono magnifici, ma non riescono mai a sviluppare quello che avremmo voluto.

Non parliamo poi del quadro storico-politico della storia, obbligata a essere riassunta da frasette che aprono e chiudono i capitoli. Ne viene fuori un film davvero non finito, con grandissimi duelli, come quello alla stazione sotto la neve, grande eleganza di scene e costumi, fotografia incredibile, attori pazzeschi, ma senza una narrazione riuscita. Insomma, ridatece David Lean.

 

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