UN POPOLO DI INFAMI E DI EROI – DOPO 27 ANNI TORNA IN LIBRERIA “L’ORO DEL MONDO” DI SEBASTIANO VASSALLI, IL LIBRO SULL’ITALIA DELLA GUERRA CHE NON DOVEVA USCIRE

Sebastiano Vassalli per il “Corriere della Sera

 

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Secondo il progetto iniziale, questo romanzo avrebbe dovuto raccontare il naufragio di una nazione, l’Italia, nella Seconda guerra mondiale. Il Paese che era arrivato all’unità politica con Mazzini e Garibaldi, con Cavour e con i Savoia; che si era messo alla prova nelle trincee della Grande guerra e che poi aveva trovato il suo carattere unitario con il «fascismo» di Mussolini e compagni, io l’avevo intravvisto nei miei primissimi anni di vita in un turbinio di divise grigioverdi, di fanfare, di bollettini di guerra e di proclami letti alla radio da una voce marziale. Tutto, poi, si era dissolto in una data: l’8 settembre 1943, in cui la fantasia dei miei connazionali aveva collocato un evento, anzi una parola, la parola «armistizio», che avrebbe dovuto spiegare il prima e il dopo e invece non spiegava niente. 
 

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Ciò che era successo a partire da quella data in realtà era una catastrofe di proporzioni mai viste, per quanto si andasse indietro nel tempo: con milioni di uomini allo sbando, abbandonati a sé stessi in due, tre, quattro continenti diversi. Con il nostro Paese invaso da nord e da sud, da uomini di tante nazionalità che non sarebbero bastate le dita di una mano a contarle, ci volevano anche quelle dell’altra. Con gli italiani impegnati a combattersi tra loro in una guerra fratricida. Quella catastrofe doveva essere la materia del mio racconto; ma il progetto era troppo ambizioso e dopo averne verificato l’impossibilità sono stato costretto a metterlo da parte. 
 

Ho ripiegato su una storia più limitata, con un protagonista che doveva avere il mio stesso nome e doveva parlare con la mia voce. Volevo che il mio racconto sembrasse autobiografico senza esserlo o, meglio, senza esserlo del tutto.

 

Un personaggio preso dalla realtà ci sarebbe stato e sarebbe stato il padre di Sebastiano. «L’infame», come l’avrei chiamato nel romanzo, era una figura in parte simbolica: era il carattere nazionale che ereditiamo dai nostri genitori al momento di nascere, ma era anche il padre anagrafico del protagonista.

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Era una persona che conoscevo bene: mio padre. La narrazione, poi, si sarebbe dipanata seguendo il filo della memoria in tre tempi: il passato remoto, il passato prossimo e il presente, a cui dovevano corrispondere tre diverse forme della scrittura. Tre stili, secondo un canone antico ma tuttora valido. Il passato remoto sarebbe stato il tempo della catastrofe e dello stile tragico; il passato prossimo avrebbe rappresentato il tempo della nostalgia e quindi dello stile elegiaco; il presente, infine, mi avrebbe consentito di mettere in scena, in stile comico, l’eterna commedia umana.

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Al presente sarebbero appartenuti il protagonista e il padre del protagonista con la sua fidanzata, l’editore con la sua casa editrice perennemente sull’orlo della bancarotta, il fantasma di Vittorio Emanuele incontrato in treno e gli altri personaggi del mio racconto. 
 

Correva l’anno 1986. La casa editrice Einaudi, dopo aver rischiato il fallimento e la chiusura come la casa editrice di cui si parla nell’ Oro del mondo , era stata data da amministrare a un avvocato torinese nominato dalla politica; ma i responsabili dei vari settori erano rimasti quasi tutti al loro posto. L’editore, estromesso dalla sua creatura, aveva potuto rientrarci come consulente.

 

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La realtà stava imitando la finzione o, al contrario, era il romanzo che imitava la realtà in forme grottesche? Mandai il frutto delle mie fatiche alla casa editrice. La risposta tardava e così, nel mese di marzo del 1987, andai a Torino per conoscere le ragioni di quel silenzio. Parlai con il direttore editoriale e con un altro dei capi di allora. Mi dissero che il mio romanzo: L’ oro del mondo , non era pubblicabile e che era stato rifiutato per una serie di ragioni che mi elencarono e che, dopo quasi trent’anni, non ricordo più. 
 

Io, tengo a precisarlo, sono sempre stato severo con me stesso e ho sempre accettato le critiche; ma c’era qualcosa di poco convincente in quei discorsi e in quella situazione. Qualcosa che non riguardava ciò che avevo scritto ma me personalmente. Ripresi il mio scartafaccio e me ne andai, pensando che mi sarei rivolto a un altro editore. Per ciò che mi era stato detto, e per come si era svolto il colloquio, il mio rapporto con la casa editrice Einaudi finiva lì.

 

Sebastiano VassalliSebastiano Vassalli

Non sapevo, e forse non lo sapevano nemmeno i miei interlocutori, che il «consulente editoriale» Giulio Einaudi si era procurato una fotocopia del romanzo e se l’era portata a Roma (...). Trascorsero tre o quattro giorni. Una mattina presto, saranno state le otto, suona il telefono. «Sono Natalia Ginzburg», mi dice una voce di donna. «Non ci conosciamo ma Giulio Einaudi ieri sera mi ha dato da leggere il suo libro e l’ho trovato bellissimo». 
 

Ed eccoci alla ragione della dedica. 
Giulio Einaudi non soltanto aveva letto L’ oro del mondo , comprese le pagine sull’editore e sulla casa editrice in «amministrazione controllata» e gli era piaciuto, ma l’aveva fatto leggere ai maggiori autori e consulenti della ex sua casa editrice. (...) 
 

GIULIO EINAUDIGIULIO EINAUDI

Giulio Einaudi, mancato nel 1999 all’età di ottantasette anni, è stato il più grande editore italiano dopo Aldo Manuzio e un protagonista della cultura del Novecento. Io però voglio concludere questa carrellata di ricordi con un episodio che non si riferisce a lui, ma al tema centrale del mio racconto, cioè al carattere nazionale degli italiani. Nella primavera del 1988 mi capitò di essere invitato dall’Istituto Storico della Resistenza di una città dell’Italia settentrionale: non dico quale, perché purtroppo l’episodio è autentico e non voglio che il protagonista sia riconoscibile. 
 

Ci fu un incontro, in quella città, con alcune classi delle scuole medie superiori e il presidente dell’Istituto che l’aveva organizzato, un ex partigiano, dovette dire qualche parola per presentarmi. Dai riferimenti che fece al mio libro, si capì che ciò che più l’aveva impressionato era la figura del padre di Sebastiano, e che quell’impressione non era stata del tutto negativa.

Giulio Einaudi in una foto degli anni 50Giulio Einaudi in una foto degli anni 50

 

La cosa mi stupì, ma la attribuii a una lettura del testo un po’ troppo frettolosa; e, naturalmente, non dissi nulla. Soltanto dopo che l’incontro fu finito, con tutto il tatto possibile cercai di spiegare al mio interlocutore che l’«infame», oltre a essere un suo coetaneo, era stato anche un suo nemico e un nemico dell’Italia libera. Mi rispose alzando le spalle: «È un mascalzone, lo so, ma è un vero uomo». Disse proprio così e dopo un attimo di silenzio aggiunse: «Ce n’erano anche tra noi dei tipi come lui». Se ancora avevo delle illusioni sul carattere nazionale degli italiani, quel giorno ho smesso di averle. 

 

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