UNA VITA DA LUCIANO MARTINO CHE SCOPRÌ “QUEL GRAN PEZZO DELL’UBALDA” DELLA FENECH E BOCCIO’ NICOLE KIDMAN! (“E CHE DOVEVO FA’? ERA UNA STAMPELLONA BRUTTA, CON UN BUCO AL POSTO DELLA BOCCA E UN CESTO DI BARBABIETOLE IN TESTA”)

Malcom Pagani per Il Fatto

Quando si poteva ancora ridere e inseguire a 40 gradi l'ombra di un lenzuolo era meno drammatico di un trasferimento disperato verso un letto d'ospedale a Nairobi. Sergio Martino, il fratello minore, glielo rimproverava sempre: "A Lucianì, zitto tu che hai scartato Nicole Kidman". Allora Luciano Martino prendeva fiato e certo che gli indiscreti fossero rimasti fuori dalla porta, rivendicava: "E che dovevo fa'? Era una stampellona brutta, con un buco al posto della bocca e un cesto di barbabietole in testa".

Erano anni in cui la memoria prendeva il largo e faceva strani giri. Ingigantiva i confini e dilatava le luci. Con più di 100 film scritti,diretti e prodotti,al ragazzo dei Parioli che aveva sceneggiato con Pasolini, capitava di esagerare. Di somigliare al soldato Camillone "Grande, grosso e frescone" di una delle sue poverissime commedie sottomilitaresche girate tra Guidonia e Via della Bufalotta. Di prendere la scorciatoia e "spogliarsi così, senza pudor" dei freni inibitori colorando la vita proprio in coincidenza di quella vecchia storia.

Attribuirsi in toto la scoperta dell'attrice amata da Kubrick e Lars Von Trier, ingaggiata da Sergio Martino nell'87 per l'inoffensivo ‘'Un'australiana a Roma'' e poi planata fino all'Oscar, in fondo, equivaleva a guardare dal buco della serratura. Osservando una porzione del tutto. Desiderandone una parte, la parte migliore, al pari degli italiani che con la scusa della commedia sexy sognavano di evadere dai tinelli familiari aspirando a un seno di Gloria Guida, a una doccia con Edwige Fenech, ai doppi sensi (La signora gioca bene a scopa?, Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda, Cornetti alla crema) in cui pochade, chiappe all'aria e mariti fedifraghi prendevano gli accenti di Lino Banfi promettendo nell'intestazione originaria molto più di quel che mantenessero.

Nell'Italia dei pretori sessuofobi, della censura e delle forbici di Stato agitate sugli appartamenti parigini di Bertolucci, Luciano Martino ballò un Tango felice. Innocente e remunerativo. La musica era finita da un pezzo, ma Martino, scomparso mercoledì notte a 80 anni, al culmine di una penosa malattia sugli stessi cieli africani che avevano visto nascere Franco Califano, sapeva che l'illusione dura sempre più a lungo della noia. La coltivò per decenni, con l'amico Mino Loy, con cui nell'ufficio della Vip, aveva diviso a tempo debito ruoli e competenze.

Nelle trattative con attori e maestranze, Luciano era l'uomo di mondo. Colto, spiritoso, buono e accondiscendente. Mino la belva intransigente. "Vorrei darti 10 milioni in più, credimi, ma se mi scopre Mino poi come facciamo?".Era una commedia di genere anche quella e a contratti firmati , Loy e Martino ne ridevano fino alla nausea.

Dell'allegria,il lazialissimo Martino (non rare erano le cene con l'allenatore Zaccheroni a cui dava sfacciati consigli di tattica) era maestro. Cinico e affabulatore, simpatico come solo quelli abituati agli inganni del palco, quando vogliono, sanno essere.

Nella medusa preberlusconiana di Poccioni e Colaiocomo, agli aperitivi delle sei con Adriana Chiesa e Adriano De Micheli, Lucianino teneva banco. C'erano produttori, attori, sceneggiatori e ragazze molto belle della cui attenzione, con inconfondibile voce nasale, Martino rinnovava volentieri lo stupore: "Che ci troveranno in me che Alain Delon non sono?".

Si stappava un prosecco alle fortune della casa e si ragionava ad alta voce sull'ennesimo episodio di Pierino e sull'ipotetica posa di due culetti d'oro a grandezza naturale da mettere all'ingresso in Via Barnaba Oriani, per restituire a tutte le Nadie Cassini del periodo, la giusta gloria e un monumento imperituro.

Luciano non era volgare, ma conosceva a memoria le regole dell'attrazione tra artigiani ed esercenti. Il patto tacito. Tanto si spende e tanto, senza eccezioni, deve rientrare. I diagrammi di un cinema molto lontano da Buñuel in cui le belle di giorno, dovevano necessariamente dimostrarsi tali anche di notte, al momento dell'incasso.

Luciano Martino non faceva mai i film che gli piacevano, ma solo quelli che pensava piacessero agli altri. Non confondeva (tipico abisso dei finanziatori che traviati dall'allure intellettuale, in un equivoco da mecenati fuori contesto, finirono in miseria) i propri gusti per quelli collettivi. "Il palazzinaro" del cinema, come sibilavano i colleghi invidiosi, aveva ragione.

Per immaginare opere ora venerate da Quentin Tarantino (che sta vivisezionando i film e prepara un omaggio tematico) Martino lavorava sul costume. Osservava la realtà. Ne riproduceva sommariamente i tic. La traslava. La esasperava. Orientandosi tra città a mano armata, soldatesse, professoresse di scienze naturali, poliziotte e isole degli uomini pesce. Avventure. Fotogrammi. Viaggi. Capitava di emigrare e in quell'ilarità di fondo, in quel circo itinerante di mestieri, dialetti e aneddoti, ritrovarsi a piangere all'improvviso nel lutto. Una volta , in Arizona, precipitando con un elicottero mentre girava un film dei fratelli Martino, se ne andò l'attore Claudio Cassinelli.

IL DOLCE, ironico Cassinelli, compagno di Irene Bignardi, giovane padre di Giovanni e Cristo nell'età acerba al Teatro del Convegno, prima di finire crocifisso a 47 anni sotto un ponte a Page, a due passi dal Grand Canyon, dalle gole del caso e dagli sprofondi della sfortuna. Al fato, il pragmatico Martino credeva ilgiusto.Sapevachiamare(Fenech,IsabelRussinova, Olga Bisera, l'ultima compagna) e dove atterrare quandoilcielopromettevatempesta.Avrebbevoluto morire a Malindi, in Kenya, nel "Continente nero" dall'accento italiano in cui Marco Risi ambientò un notevole ritratto d'insieme. Ci è riuscito. Parlando il linguaggio semplice e universale dell'aspirazione finale, così distante dall'inglese che nonostante le tante coproduzioni, rifiutò sempre di imparare. Anni fa, in laguna, in occasione della proiezione de Il mercante di Venezia a cui aveva contribuito, Luciano si aggirava inquieto tra Al Pacino e Jeremy Irons. Un vago disagio dialettico davanti al quale innalzare un immediato argine. "Ahò, c'è qualcuno che può tradurre dall'inglese qui? Mi parlano da un'ora, io sorrido, ma non capisco un cazzo". A fine serata, tra un gesto e un colpo d'occhio, Luciano era il re. Rapiti, lo ascoltavano tutti. Era cinema. E ciò che si intuiva, come nei suoi film, era molto più importante di quel che davvero si mostrasse.

 

 

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