IL BANANA NON DIMENTICA: NO A MATTARELLA, L’ARCINEMICO DEL ‘BISCIONE’ – LETTA FOREVER, DA GIANNI AD ENRICO

Francesco Bei per "la Repubblica"

«La nostra rosa è questa: Sergio Mattarella, Giuliano Amato e Franco Marini. Ora dovete scegliere». È l'ora di pranzo quando Pierluigi Bersani formalizza l'offerta al Cavaliere. Il segretario del Partito democratico presenta al leader del Popolo della Libertà un tridente, ma in realtà, spiegheranno i suoi in serata, «da quel momento e per tutto il giorno» sarà sul nome di Mattarella che cerca (invano) l'assenso del suo interlocutore.

I due si incontrano in un luogo segreto, depistando i giornalisti che pattugliano tutto il centro di Roma. Gli indizi portano al quartiere popolare di Testaccio, a casa di Enrico Letta, dove sono presenti anche Maurizio Migliavacca, Dario Franceschini e Vasco Errani. Il vertice non dura molto, anche perché Berlusconi prende tempo, «ne devo parlare prima con i miei», dice congedandosi.

Sotto al portone lo aspetta una anonima Subaru, scorta ridotta al minimo per non dare nell'occhio. E poi subito s'infila in una riunione a palazzo Grazioli con Alfano, Verdini e i fedelissimi. Che l'accordo sia a un passo è comunque evidente. Niente ufficio di presidenza, slitta anche la riunione dei gruppi parlamentari del Pdl.

A palazzo Madama s'aggira il senatore Salvatore Sciascia, l'ex direttore dei servizi fiscali del gruppo Fininvest, uno che parla all'orecchio del Cavaliere. L'aria che il "cassiere" di Berlusconi annusa è molto chiara: «Ma come si fa a non mettersi d'accordo con Bersani sul capo dello Stato? Io con quelli del Pd ci parlo sempre, mentre i grillini nemmeno ci salutano».

Il problema è che su Mattarella il Cavaliere non sente ragioni. «Non ci possiamo fidare», ripete nella riunione. Ancora pesa lo strappo di vent'anni fa, quando i cinque ministri della sinistra Dc (tra cui appunto Mattarella) nel 1990 si dimisero dal governo Andreotti nell'estremo tentativo di non far passare la legge Mammì che cristallizzava il monopolio tv del Biscione.

Certo, nella rosa ci sarebbe anche Giuliano Amato. Anzi, il nome del dottor Sottile è talmente gradito a Berlusconi che nei palazzi della politica si sparge la voce che l'accordo sarebbe già stato chiuso proprio su di lui. Eppure il Cavaliere non è del tutto convinto. «Su Amato il Pd si spacca - osserva Berlusconi - e anche la Lega e Vendola sono contrari. Bersani non riesce a tenere unito il suo partito e noi rischiamo di ritrovarci Prodi o Rodotà eletti al quarto scrutinio».

C'è poi un nome molto forte che, almeno ufficialmente, nella rosa di Bersani non compare. Quello di Massimo D'Alema. Se ne parla eccome. Il Cavaliere in fondo si fida, gli riconosce il ruolo di "capo" della sinistra, «sa tenere a bada i suoi». Ma i dirigenti del Pdl alla fine lo convincono che D'Alema non sarebbe digerito dall'elettorato del centrodestra: «È troppo, "Baffino" è troppo anche per noi».

Dunque non resta che Franco Marini. Berlusconi, prima di rientrare a palazzo Grazioli dopo aver visto Bersani, ordina alla scorta di deviare verso i Parioli per un faccia a faccia con l'orso marsicano. Vuole sapere, nel caso arrivi al Colle con i voti del centrodestra, cosa farà Marini sulla questione del governo. E la risposta che ottiene deve essere positiva se alla riunione del gruppo, qualche ora più tardi, il Cavaliere assicura: «Con lui c'è la possibilità di un governo che faccia quello che serve al paese».

La scommessa di un governo del Presidente è infatti la partita coperta che si è giocata ieri dietro la trattativa sul Quirinale. Anna Finocchiaro, una delle papabili per il Colle (prima delle bordate di Renzi), a metà pomeriggio parla ad alta voce in un corridoio deserto del Senato e pronostica: «Se davvero c'è questo accordo significa che non si va alle elezioni. Si farà un governo del presidente, con un premier scelto dal capo dello Stato, e il programma sarà quello che hanno scritto i dieci saggi. I ministri saranno delle personalità d'eccellenza indicate dai tre partiti». Finocchiaro non lo dice, ma nelle discussioni fra Pd e Pdl il nome più forte che circola per guidare questo governo di scopo è quello di Enrico Letta.

Nel frattempo la trattativa è ancora aperta e il Pd attende impaziente una risposta da Berlusconi. Sono le cinque del pomeriggio e il Cavaliere prende tempo. Gli ambasciatori del Nazareno insistono. Telefonano a via del Plebiscito per avere un nome. Bersani manda un messaggio che suona minaccioso: «Alle otto di stasera abbiamo l'assemblea dei gruppi. Se non vi fate vivi per quell'ora io vado lì e propongo Mattarella».

Per Berlusconi suona il campanello d'allarme, ma in fondo il Cavaliere è già convinto. «Marini è il massimo che possiamo ottenere. Nel 2008, quando cadde Prodi, non provò a fregarci e si fece da parte, così potemmo andare alle elezioni ». A mezzabocca nel Pdl ammettono che Berlusconi e l'ex presidente del Senato, nel loro colloquio all'ora di pranzo, hanno parlato anche della questione giustizia. «Marini - racconterà il Cavaliere al suo ritorno - sa bene come funziona la magistratura in Italia».

 

 

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