LA CLAVE DEL CONCLAVE: CURIA RIFORMATORI

Giulio Anselmi per "La Repubblica"

Anche se non si vota ancora, il borsino dei cardinali sale, scende, talvolta sussulta. Mercoledì sera si segnalava l'avanzata dell'arcivescovo di Milano Scola, uno dei pochi italiani teoricamente papabili, sorretto da un'inedita cordata franco-americana: quaranta voti! Ma subito una voce proveniente dalle Congregazioni frenava: «Sul suo nome si spaccherebbe il blocco italiano ».

La squadra yankee è sempre al centro dell'attenzione, ma, anche per la scarsa sintonia con gran parte dei colleghi italiani, identificati con la screditatissima curia romana, il leone di New York Dolan e il cappuccino di Boston O'Malley non sembrano fare gran passi verso il trono pontificio (traguardo che non entusiasmerebbe, tra l'altro, il loro governo nazionale). «Gli americani sono, prima di tutto e troppo, americani», chiosa sardonico un monsignore della Segreteria di Stato. Si riferirà all'ombra lunga della superpotenza che è sempre apparsa preclusiva per l'elezione al papato o alle insistenti richieste di trasparenza da parte dei porporati Usa?

Tradurlo: è il problema che si pone di fronte a qualsiasi messaggio proveniente dall'interno delle mura leonine. La lettera delle parole è fuorviante, il binomio «riformatore- romanocentrico», quando vi vengano incasellati i nomi delle eminenze, appare esilarante, l'antica contrapposizione italiani-stranieri non è risolutiva, il meccanismo d'attrazione dei voti che in conclave funziona come una calamita, non è ancora scattato.

Il punto di partenza, nelle semiriservate conversazioni del preconclave, è sempre lo stesso, sostenuto con una molteplicità di argomenti, dal numero di cattolici ormai predominante dell'America latina all'inadeguatezza della Curia: sarebbe bene che il nuovo papa non fosse italiano. Ma bisogna intendersi su cosa nei sacri palazzi voglia dire straniero. «Dev'essere significativamente straniero», spiega un vescovo curiale che è stato missionario in Africa. E ripete «significativamente», a indicare che deve esprimere un altro modello di Chiesa: andrebbe bene un religioso, magari domenicano o cappuccino (presenti entrambi in conclave).

Nei conciliaboli cardinalizi di mezza settimana gli «stranieri» hanno assunto un'identità precisa, rispondente a equilibri geopo-litici, ecclesiali, di cordata: quale di questi elementi prevale nell'arcivescovo brasiliano Scherer, brillante, buon comunicatore, forte di doppia esperienza - diocesana in un grande paese in crescita e, prima, nella curia romana - ben visto in Europa dal blocco di elettori tedeschi? «Che è amico di Bertone», va spiccio il solido porporato nord italiano che del segretario di Stato è considerato uno dei non troppi leali seguaci.

Quella che doveva essere tenuta in serbo come sorpresa è trapelata giovedì: Malcolm Ranijth, arcivescovo dello Sri Lanka: prete, parroco, poi alle Congregazioni di propaganda fide e del Culto divino, quindi nunzio nelle Filippine, vicino all'arcivescovo di Vienna Schönborn: un dosaggio che sembra studiato a tavolino per accontentare nord e sud del mondo, cardinali di curia e diocesani. «Né bianco né nero, beige », hanno già sintetizzato con bel cinismo romano-curiale. Ma anche su Ranijth comincia a correre una voce debilitante: troppo gradito al partito al potere.

I temi Ior e Vatileaks non impressionano solo la base cattolica, anche se in congregazione il cardinale Herranz, presidente della commissione nominata da Benedetto XVI per indagare sullo scandalo Vatileaks, considerato il vero capo dell'Opus Dei, ha fatto del suo meglio per buttare acqua sul fuoco, attestando («a titolo personale, ma anche per conto dei colleghi De Giorgi e Tomko) che il 95 per cento di chi lavora in Vaticano è un esempio di fedeltà e collaborazione.

Se, su qualsiasi altro argomento, dovesse prevalere l'urgenza di fare pulizia, potrebbe prendere campo un italiano, ma non di curia, considerato in grado di porre immediatamente mano alla ramazza, per miglior conoscenza del terreno. Certo, è una minoranza, tra i 3700 curiali, quella coinvolta nelle porcherie dello Ior e di Vatileaks.

Ma girano nomi e carte e da qualche parte giace il frutto del mastodontico lavoro di intercettazione svolto dalla gendarmeria dopo la scoperta dei corvi. Poi, più potente d'ogni arma, c'è la denuncia anonima, diffusissima in Vaticano nei giorni più difficili dello scandalo, sulle porte di certi uffici furono incollate, col nastro adesivo, foto di corvi.

La pentola è in ebollizione, gli scenari si allargano, come già in passato, a includere figure di segretario di Stato (dopo il consueto periodo di grazia a Bertone), per integrare il Papa, per garantire un «pacchetto» di voti. Emergono i nomi di Bertello, di Sandri, di Piacenza. «Ma Mosè non entrò nella terra promessa », chiosa un porporato ultraottantenne che non si priva, in queste ultime ore di attività, del piacere di un po' di veleno.

Arte raffinata nella Chiesa. Ma per ora non è chiaro contro chi usarla. Quello tra Scola e Scherer è un vero duello? Si comincerà il 12 per sapere, il giorno dopo, chi sarà Papa o tutti i giochi dovranno ripartire? È ancora presto. Il saggio Herranz non si sbilancia: «Conta l'età, la salute, la conoscenza delle lingue, la capacità di viaggiare e forse anche la nazionalità».

 

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