1- CULATELLO A FETTE, PD ALLA DERIVA: DORIA, IL CANDIDATO DI VENDOLA, VINCE A GENOVA 2- LA CAMPAGNA ELETTORALE DI MARCO DORIA, MOLTO CRITICA SUI SACRIFICI DEL GOVERNO MONTI. PRIMO SEGNALE DEL PREZZO CHE IL PD PAGA ALL'ESECUTIVO “TECNICO” 3- A COLPI DI PRIMARIE SEMPRE PIÙ HARAKIRI, L’ONDA ARANCIONE AVEVA TRAVOLTO IL PD IN PUGLIA (VENDOLA), A MILANO (PISAPIA), A NAPOLI (DE MAGISTRIS), A CAGLIARI (ZEDDA) 4- COSA ASPETTA BERSANI E IL SUO DEMIURGO D’ALEMA A GIRARE I TACCHI? CHE IL PARTITO FINISCA NELLE MANI DI DI PIETRO E VENDOLA E LA PARTE CATTOLICA AL TERZO POLO?

1 - PRIMARIE A GENOVA: SUICIDIO PD VINCE DORIA, SPINTO DA VENDOLA
Erika Dellacasa e Marco Imarisio per il "Corriere della Sera"

Era tutto scritto. Nero su bianco, carta intestata del Pd. L'autore era uno dei massimi dirigenti cittadini. Lo ricopiamo fedelmente. «Livello basso (20-22 mila). Doria, con 8 mila, vince». L'appunto, lasciato una settimana fa su un tavolo della segreteria di piazza Vittoria, proseguiva con le previsioni sul sindaco Marta Vincenzi «vince con livello medio, 23-30 mila» e la candidata «ufficiale» del Pd, Roberta Pinotti, che aveva bisogno di affluenza alta («30-35 mila?») e un «partito mobilitato, diffuso».

Le primarie di Genova non hanno avuto nessuna delle ultime due opzioni. E la guerra interna tra le due Erinni, copyright della candidata minore Angela Burlando, rischia di risolversi in una disfatta imbarazzante per il Pd, così grande da far sentire la sua onda anche a Roma. Alle 23, dopo due ore di spoglio, è chiaro che il professor Marco Doria, indipendente benedetto dal prete di strada don Andrea Gallo e da Nichi Vendola, una volta sentito il profumo del colpaccio, è il prossimo candidato sindaco del centrosinistra a Genova.

Il sindaco in carica commenta così: «È un terremoto politico, che non rappresenta un voto ideologico né un voto che unisce la città. È un voto contro la continuità di un partito che ha rappresentato il perno della maggioranza a Genova». E su Bersani avverte: «Non sarà felice». L'appoggio a Doria, per ora, resta un'ipotesi: «Vedremo... Non ho ancora letto un programma, solo tanti no».

Doria era il terzo incomodo, se mai ce n'è stato uno. L'ultimo a iscriversi a questa corsa infinita, partita 12 mesi fa, quando i mugugni del Pd locale contro la vocazione autoritaria dell'ex super Marta avevano superato il livello di guardia creando le premesse per la discesa in campo di Roberta Pinotti.

La disfida interna aveva consegnato una città bisognosa di cure e attenzioni come poche altre a una campagna elettorale estenuante, dove tutto veniva letto alla luce della competizione carsica nel partito di maggioranza. Doria ha deciso di provarci solo tre mesi fa, azzeccando i tempi e i modi, girando al largo dalle due candidate e dalle rispettive fazioni troppo impegnate a scannarsi per accorgersi che Genova cercava alternative.

La domenica delle primarie è stata una corsa verso un risultato che era nell'aria. La tramontana nera ha risparmiato i 73 circoli cittadini dove si votava, faceva freddo ma neppure tanto. Eppure i sostenitori del centrosinistra sono rimasti a casa. La vicenda del seggio di Carignano, dove per un black out gli elettori hanno votato alla luce dei fanali di auto schierate all'occorrenza, è stata presa alla stregua di un presagio.

Alla fine si sono presentati ai seggi solo 21.000 cittadini, confermando la profezia dell'appunto anonimo. Nel 2007, alle primarie che designarono Marta Vincenzi, votarono in 37.453. Il segnale del disamore è inequivocabile, neppure i dati dell'affluenza leniscono i dolori di un Pd consapevole di essersi sparato in un piede. Basta leggere le parole di Marco Tullo, deputato e segretario regionale, l'unico a metterci la faccia in una notte da dimenticare. «Abbiamo perso ed è un risultato che deve aprire una riflessione seria, anche nazionale. Uno tsunami politico. Purtroppo non esagero». I vertici locali democratici valutano l'ipotesi di lasciare.

I calcoli sui seggi del centro e del Levante, che vedevano una tendenza-Doria, contrapposti ai quartieri popolari del Ponente, roccaforte pd divisa tra Pinotti e Vincenzi, erano esercizi di stile. La vittoria di Doria (con il 46% dei voti) è netta, ovunque. Il suo programma improntato al pragmatismo, nessuna promessa di ridurre le tasse ma impegno a mantenere inalterati i servizi essenziali, ha fatto breccia.

Angela Burlando, ex vicequestore e candidata minore (quota socialista), è convinta che sia stata una vittoria di genere. «Il Pd ha schierato due candidate di peso equivalente che si sono annullate, come temuto anche dai dirigenti democratici, incapaci di opporsi a un suicidio annunciato».

Doria si è inserito tra due debolezze. Tra un sindaco ferito dal dramma dell'alluvione e un'avversaria costruita in casa che non si è mai scrollata di dosso la patina di candidato d'apparato. Magari senza evocare tsunami, ma anche nella roccaforte di Genova la frittata del Pd è servita.

2 - E NEL PARTITO: PAGHIAMO I SÌ AL PREMIER
A. Gar. per il "Corriere della Sera"

I dirigenti del Pd temevano che sarebbe finita con Doria vincente. Ma ieri sera, quando hanno avuto il risultato davanti, hanno ondeggiato, incerti. Vogliono attendere i risultati ufficiali e definitivi, che è un modo per prendere tempo, riflettere. Il compito di fronteggiare l'evento è stato affidato a Davide Zoggia, responsabile enti locali. La linea prevede che il Pd «sosterrà senza tentennamenti il primo arrivato alle primarie, perché questa è la logica delle primarie». Zoggia aggiunge che «le due candidature Pd hanno aperto la strada all'affermazione di un terzo candidato».

La verità che ognuno conosce è che non c'è stata la capacità di «ridurre a uno» i due candidati del Pd. «Ma la Vincenzi è sindaco uscente, la Pinotti è una parlamentare genovese, come potevamo scegliere?», dicono ora i collaboratori del segretario Bersani (nella foto). Nessuna delle due ha voluto fare un passo indietro. «Se Marta dovesse vincere le primarie, io sarei la sua prima elettrice», ha detto la Pinotti. Solo che Marta non ha vinto.

Altro elemento importante: la campagna elettorale di Marco Doria, molto critica sull'operato del governo Monti. Sarebbe questo il primo segnale del prezzo che il Pd paga nell'appoggio all'esecutivo «tecnico» e ai sacrifici. Un dato che peserà nelle valutazioni del giorno dopo è quello dell'affluenza, dai 33 mila votanti delle primarie che premiarono Vincenzi ai 21 mila di ieri.

Un po' di maltempo e un po' di disaffezione verso lo strumento-primarie da parte degli elettori. Adesso il timore prende un'altra forma, quella di perdere un baluardo del centrosinistra come Genova. Doria è un candidato che piace a sinistra, ma può irritare e allontanare gli elettori più vicini al centro, può spingere l'Udc-Terzo polo (che non ha qui una delle sue roccaforti) alla presentazione di un suo candidato o all'accordo col centrodestra.

3 - L'EREDE DEL MARCHESE ROSSO SULLE ORME DI PISAPIA «RIVOLUZIONI? NO, SERIETÀ» «È IL PAESE CHE CAMBIA, IL CENTROSINISTRA LO CAPISCA»
M. Ima. per il "Corriere della Sera"

Quando si iscrisse al liceo classico che porta il nome di un suo antenato, ammiraglio e principe dell'età dell'oro, divenne subito il quarto alunno, su mille che erano, a prendere la tessera della federazione giovanile del Pci. Non era un passo scontato e neppure facile, nell'istituto che in quei giorni metteva all'indice un professore accusato di essere troppo a sinistra in quanto liberale moderato.

Ci sono scelte che si trasmettono per via ereditaria, nel nome del padre. Giorgio Doria, papà di Marco, era il marchese rosso, ultimo discendente di una famiglia che annoverava tra i suoi avi il vincitore della battaglia di Lepanto. Nel primo dopoguerra decise di iscriversi al Pci. Fu diseredato come un novello San Francesco, ma divenne una delle figure epiche della sinistra genovese. Vicesindaco nella prima stagione del Pci al governo negli enti locali, appena insediato firmò la revoca del diritto all'auto blu per tutti gli assessori.

A differenza del padre, Marco Doria ha sempre anteposto la passione per l'economia alla politica. Ricercatore all'Archivio storico Ansaldo, poi alla Fondazione Einaudi di Torino, infine docente universitario nella sua città. Sempre con la tessera del Pci in tasca, fino alla fatale Bolognina, quando non accetta la svolta di Achille Occhetto e insieme al padre, scomparso nel 1998, si iscrive a Rifondazione comunista. Da allora, se ne erano perse le tracce. Adesso dovrà correre per governare la città che fu la Repubblica governata dai suoi antenati.

Ma quando appare alla sede del suo comitato, piena di ragazzi in festa, età media bassa, entusiasmo a livelli di guardia, conferma la sua natura di strano outsider, dal tratto per nulla popolare. In piazza delle Fontane Marose ci sono centinaia di persone che lo acclamano. Lui accetta il bagno di folla ma mostra anche di subirlo, fedele al suo tratto abbastanza austero, poco incline alle feste e ai sorrisi, caratteristica abbastanza temuta dai suoi sostenitori durante i tre mesi di campagna per le primarie.

«Non è successo nulla, l'impegno deve continuare. Mi aspettavo una buona risposta, non così estesa. Credo che la serietà della mia proposta abbia pagato. A fare la differenza è stato un modo diverso di porgersi nei confronti dei cittadini, che hanno bisogno di una politica diversa da quella che hanno visto negli ultimi anni. Non è un'onda lunga che arriva da Milano, è qualcosa che c'è nel Paese, e il centrosinistra ha il dovere di percepirla».

La erre vagamente blesa freme alla domanda su eventuali posti in giunta. «Questo è un modo vecchio di ragionare, esattamente il modo di fare politica che mi riprometto di evitare». Curiosa la sua reazione a una vittoria clamorosa e netta, perché lontana da qualunque trionfalismo, da definire sobria, se non si trattasse di un aggettivo molto abusato di questi tempi. «Genova non cambierà dopo questa notte. Non ho mai promesso rivoluzioni, mi limito a promettere serietà, credo che il mio punto di forza sia proprio questo. A questo punto l'entusiasmo potrebbe essere cattivo consigliere».

Un gruppo di ragazzi avvolti in bandiere vendoliane si offre di sollevarlo per portarlo in trionfo. Lui declina l'invito con garbo, accetta solo il paragone con Giuliano Pisapia. «La mia vittoria esprime la stessa volontà di cambiamento che spinse la sua. Ma quando ho deciso di provarci, le assicuro che mi sono limitato a ragionare da cittadino ed elettore. Non mi trovavo nella proposta politica offerta alla città, tutto qui. Cercherò di non scegliere le mie posizioni su un calcolo di consenso immediato.

Credo nei progetti, nel pragmatismo». La sua vittoria equivale all'umiliazione di un Pd destinato a diventare, forse, il suo principale alleato. «È riduttivo parlare di una sconfitta del Pd. Nei circoli democratici ci sono andato, ho ascoltato i militanti. Loro non sono stati sconfitti. A perdere, forse, sono le logiche di partito e delle tessere, che sono un'altra faccenda. Apro un problema politico nel Pd? Non credo di essere stato io. C'era già, a livello di gruppo dirigente».

Le sue parole e la sua notte finiscono qui. La sosta al comitato elettorale dura appena mezz'ora, il tempo di un brindisi a spumante. «Domattina vado a lavorare, come sempre, saluti a tutti». Marco Doria non esulta perché in cuor suo sa bene di aver vinto delle primarie a formato ridotto, appena 21 mila votanti.

«Di nicchia», le definisce Sergio Cofferati, certo non un suo sostenitore. Ma c'è comunque qualcosa di antico in un distacco esibito e sincero. Per uno che nell'album di famiglia può vantare un principe ammiraglio del Cinquecento, un cardinale del 1700 e tre senatori del Regno d'Italia, cosa vuoi che sia una vittoria di tappa.

 

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