I CARDINALI AMERICANI, VERE STAR DI QUESTO CONCLAVE, PUNTANO A ELEGGERE UN PAPA ESTERNO ALLA CURIA ROMANA, E VOGLIONO PRENDERE TEMPO, ANCHE PER SAPERE QUALCOSA IN PIÙ SULLA QUESTIONE VATILEAKS - L’ARCIVESCOVO DI CHICAGO FRANCIS GEORGE: “LA LISTA DEI PAPABILI SI STA ALLARGANDO. I NOMI CHE AVETE VISTO SUI GIORNALI HANNO SENSO, MA STIAMO PARLANDO PURE DI CANDIDATI DI CUI FINORA NON AVEVA DISCUSSO NESSUNO”...

Paolo Mastrolilli per "La Stampa.it"

Scuote la testa e sorride, l'arcivescovo di Chicago Francis George: «Non è un problema di regole: se anche tutti i cardinali elettori fossero già a Roma, io non vorrei entrare in Conclave ora. Per una ragione molto semplice: non siamo ancora pronti».

Sta calando il sole sul Gianicolo, che ospita il Collegio Nordamericano, dove alloggia la potente delegazione degli Stati Uniti.

Il cardinale di New York Dolan torna dal Vaticano e saluta con una battuta il collega di Chicago, suo predecessore alla guida della Conferenza episcopale Usa. Poco distante l'arcivescovo di Boston O'Malley, avvolto nella sua «uniforme» da frate cappuccino, si prepara a fare una passeggiata verso la città: «Ci sono ancora troppe questioni da discutere - dice il porporato che guida la lista dei papabili a stelle e strisce - e molte persone da conoscere. E' presto per entrare in Conclave: è vero che per Pasqua vorremmo essere nelle nostre diocesi, ma stiamo facendo una scelta storica e dobbiamo prenderci tutto il tempo necessario». Anche per capire bene cosa è successo dietro le quinte, negli ultimi tempi: «Non dico che Vatileaks sarà determinante, però mi aspetto di conoscere tutti gli aspetti pertinenti al lavoro che facciamo».

I vaticanisti più esperti raccontavano questo retroscena: la Curia, e i suoi membri italiani in particolare, vogliono affrettare il voto perché questo favorirebbe un loro candidato. Così si spiega anche l'interpretazione delle regole secondo cui si può votare la data d'inizio del Conclave anche se non tutti gli elettori sono a Roma. I cardinali stranieri, invece, vogliono più tempo per capire, conoscere i risvolti dell'inchiesta su «Vatileaks» e magari costruire il consenso su uno di loro: un pastore, una sorpresa.

Ora il retroscena diventa esplicito, nelle parole di O'Malley: «E' vero, esistono due scuole di pensiero. La prima sostiene che siccome i problemi attuali della Chiesa nascono dalla Curia, dobbiamo puntare su un leader esterno; la seconda, invece, risponde che bisogna cercarlo dentro la Curia, proprio perché il primo compito del nuovo papa sarà riformarla». Il frate di Boston è in cima ai desideri della prima scuola di pensiero, anche perché è stato molto efficace nella riforma dell'arcidiocesi al centro dello scandalo pedofilia negli Stati Uniti. Lui, però, si schernisce: «Sono quarant'anni che indosso questa uniforme da cappuccino, e penso di continuare a farlo fino alla fine». Suggerisce di guardare vicino, però: «L'America Latina ha una Chiesa molto vitale. Avrà un forte peso».

Fino a qualche anno fa, quando uno immaginava l'ipotesi improbabile di un papa americano, il primo nome che veniva in mente era quello di George: un intellettuale molto preparato, ma anche un uomo affabile. Un leader, che ha l'abitudine di parlare chiaro: «Senza violare il segreto sulle discussioni a cui siamo tutti tenuti - spiega il cardinale della città del presidente Obama -, vi posso dire che la lista dei papabili si sta allargando, invece di restringersi. I nomi che avete visto sui giornali hanno senso, ma stiamo parlando pure di candidati di cui finora non aveva discusso nessuno».

L'arcivescovo di Chicago è schietto anche nel descrivere l'andamento dei lavori: «Tutto procede secondo i piani, nel senso che non c'è un piano: le discussioni sono molto libere. Le congregazioni però hanno regole precise, e quindi i veri contatti avvengono a margine. Un collega si avvicina e ti chiede cosa pensi di un potenziale candidato: intende dire che lui lo appoggia, insieme al gruppo a cui fa capo. Quindi tu rifletti su quel nome, sapendo che ha dietro un certo consenso.

Ma questo consenso diventerà misurabile solo quando cominceremo a votare». Senza fretta, però. Meglio avere una discussione lunga prima e un conclave breve poi, che il contrario: «La mia percezione non è mai stata quella che avremmo cominciato il 10 o l'11 marzo».

Anche perché George, finora, non ha saputo tutto quello che voleva su «Vatileaks»: «Chiediamo le informazioni necessarie per una buona scelta. Cosa è andato male, creando questa rottura della fiducia nel governo della Santa Sede? È una preoccupazione, su cui non abbiamo ancora ricevuto un rapporto formale».

 

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