1- MONTI SBARCA A BOLOGNA PER LA “REPUBBLICA DELLE IDEE” E I CENTRI SOCIALI ASSEDIANO LA CITTA’ DEI DUE ASINELLI, EZIOLO MAURO ED EU-GENIO SCALFARI 2- LE “IDEE” SI TRASFORMANO IN MANGANELLATI E LACRIMOGENI, CARICHE E FERITI, E “LA REPUBBLICA” OGGI IN EDICOLA LO “NASCONDE” IN UN’ALTRA PAGINA 3- MAURO COME UN PARROCO PIGOLA AL PAPA MONTI: “C’È UNA LUCE DI SPERANZA?” 4- SUDARIO MONTI PARLA DI TUTTO SENZA RISOLVERE NIENTE. LA COPERTA È DIVENTATA UN FAZZOLETTO. MONTI EVOCA LA PAROLA CRISI E NON PROVOCA SUSSULTI. C’È CRISI E CRISI E I RUMORI, LONTANI, DEGLI SCONTRI DEI CENTRI SOCIALI SI CONFONDONO CON GLI APPLAUSI LECCA-LECCA DELLA REPUBBLICA DELLE IDEE

DAGOREPORT

L'illusione ottica riporta al '77. Cariche, uova, urla, striscioni: «Stiamo arrivando/ Monti stiamo arrivando». Le pentole dei manifestanti battono il ritmo di un'esclusione. Anche se gli slogan riecheggiano vecchi G8: "Fuck the austerity" o nella versione italiana: "Contro la democrazia dello spread/ Monti dimettiti", i neo indiani metropolitani vestono in Brooks Brothers e comandano i fili del teatrino.

Cossiga non c'è più e al posto dei carrarmati sostano poliziotti accaldati in tenuta antisommossa. Ricoperti di gusci e tuorli caricano un centinaio di persone. «Bastardi», «pezzi di merda», scene già viste. Allora i ragazzi dei centri sociali aggirano le camionette bruciate dal sole e danno vita (altre cariche, qualche ferito lieve) alla riedizione di "corteo selvaggio".

Echi lontani di altra gente che "malgrado loro" ha occupato Roma. Piazza del popolo. Sindacati. Lavoro. Parole simili, ma diverse da quelle degli arrabbiati locali. Bolognesi e fuori sede universitari. Una città nella città che non vorrebbe celebrazioni. Che rifiuta qualsiasi party semplicemente perché non c'è nulla da festeggiare.

La festa organizzata dalla terza gamba della Camera dei Deputati, il comitato "etico" di Largo Fochetti ha scelto il suo abito. Più simile a doppiopetto da workshop dell'Aspen che alla nudità di Woodstock. Tutto qui, dove eventi diversi sono seguiti e partecipati e dove l'assenza di caos è garantita dalla forza pubblica e dall'Enel, appare controllato. Riformisticamente orientato.

Le grida fuori, tenute a distanza con i manganelli e l'Italia che verrà (decidono loro) dentro, in un turbine di sinergie economiche, interessi e velleità sponsorizzatrici. Di un'assise, di una nuova età, del Paese che domani, forse, sarà. Come sempre dal '76 a oggi, Repubblica ha messo il cappello.

Sulla crisi da eteroguidare (non è forse nelle congiunture peggiori e nella paura che si fanno i migliori affari?), sul premier che per parlare deve farsi scortare, sull'Italia sottoposta a continue lezioncine dalle pagine del quotidiano che fu di Scalfari e dopo quasi un quindicennio di cura Mauro, ancora non ha cambiato proprietà intellettuale.

Eugenio vigila, come nella storica foto del '76 in cui ancora non del tutto canuto, osservava con sotteso compiacimento la prima copia della creatura stretto tra il principe Caracciolo e Mario Pirani. Vigila Eugenio e porta in dote il mattone iniziale. La casa è venuta su e oggi più che alle architetture platoniche somiglia a un ministero.

Quattrocento giornalisti (78 alla porta) il comitato di redazione incazzato nero, i malumori per l'autocelebrazione che arrivano fin qui, dove l'orgoglio è una maglietta in serie di quel genio di Altan, un cappello da pescatore e l'audacia, come in verso di Guccini riadattato all'uso (ad ognuno i propri tempi e le proprie prove di coraggio) è una copia di Rep in tasca.

C'è qualcosa di mistico e di incomprensibile, se non si conoscesse a memoria l'invasività del giornale nelle questioni nazionali (da Moro a Sigonella, all'infinito) nell'osservare nella spietata overture d'estate bolognese, il fiume carsico che scorre e mostra pass, biglietti, fotografie ricordo, gadget comprati : «anche per mia nonna, che il giornale lo legge da 30 anni».

In questo quadro, in questa melassa di buon senso a dosi da cavallo che supera in un sol colpo i baci di Deisnau e i fidanzatini di Peynet, la figura di Mario Monti recita il ruolo dell'ospite fin troppo atteso. Il burocrate, il tecnocrate che forse (complice il defilato Corrado Passera) regalerà una rete al partito di Barbapapà, l'uomo senza qualità tutore della colonia estiva che chiusi i battenti trascinerà tutti verso le elezioni più incerte degli ultimi 40 anni.

Lo accolgono con la standing ovation. Come accadrebbe da Fabio Fazio. Lui muove le mani, ringrazia. Più che un'investitura. Sul palco Scalfari e Mauro, osmosi completa. Continuità. Monti inizia a parlare. Spesso premette «da privato cittadino». Promette che il Paese «Merkel o no, ce la farà e non perché lo dice Angela». Discute di Grecia: «È entrata prematuramente viste le sue attuali condizioni nell'Euro, ma è stata sottoposta a una tale batteria di vincoli...». Si accorge dell'eccesso, intravede rimproveri da Bruxelles e frena: «Più che giusti naturalmente».

Incensa l'Unione europea: «Un'occasione di straordinaria trasformazione per la vita civile e politica» ma avverte: «se non staremo attenti a non rianimare pregiudizi come Nord e Sud, l'occasione si ritorcerà contro».

Mauro gli ricorda che gli italiani si aspettavano che Mario li salvasse. Chiede, testuale, se esista: «una luce di speranza». Lui si rifugia nel politichese, spiega e non spiega, promette soluzioni per lo sviluppo, gli esodati e approvazioni rapide sul Ddl anticorruzione, versa acqua e indulge alla battuta: «La crisi non si supera irrorandola di liquidità», ammette una «parziale cessione di sovranità nazionale», nega di aver mai pensato ai soldi tedeschi, riflette senza ironia sul "millionaire", la lotteria, il totocalcio giornaliero nel quale è precipitata la politica mondiale: «Dobbiamo completare la riforma del mercato del lavoro prima del Consiglio Ue altrimenti il Paese perderà punti».

Alla fine parla di tutto senza risolvere niente. Un po' perché non è la Dea Kalì e un po' perché la coperta è diventata un fazzoletto. Qui però non piange nessuno. La parte giusta salverà quella sbagliata. La parola crisi evocata nuovamente da Monti non provoca sussulti. C'è crisi e crisi e i rumori, lontani, del plexiglas piegato si confondono con gli applausi grati dell'Arena del Sole.

In platea ministri, prefetti, sindaci, gente normale e imprenditori. Sul palco direttori, fondatori e premier con la clessidra in mano. Il tempo di domani sarà letto dal metronomo. Sotto, bene in vista, le insegne di Repubblica.

 

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