L’ULTIMA BATTAGLIA DEI CAINANO – LE MOSSE PER NON FARSI CASSARE DALLA CASSAZIONE - UN PAESE (E IL GOVERNO LETTA) AI PIEDI DEL PROCESSO MEDIASET

Claudio Tito per "La Repubblica"

«Se la Cassazione conferma la condanna per il processo Mediaset, certo non sarà questo Parlamento a tutelarmi». Per lui ormai si tratta di una "guerra". Un conflitto senza esclusione di colpi contro pm e giudici politicizzati. Ma per Silvio Berlusconi stavolta la prima battaglia potrebbe essere quella decisiva. Quella da cui non si torna più indietro. La Suprema corte infatti deciderà entro i prossimi mesi sul caso Mediaset (sicuramente prima di giugno 2014, quando scatterà la prescrizione).

Dovrà pronunciarsi sulla conferma o meno della pena a quattro anni di reclusione e sull'interdizione dai pubblici uffici. Con conseguente decadenza (potenziale) dal mandato parlamentare. Ossia, l'addio al Senato e alla politica attiva.

Un'ipotesi con cui il Cavaliere e l'intero stato maggiore del Pdl hanno già iniziato a fare i conti. Mettendo a punto le possibili contromosse. O meglio, la "possibile contromossa". E già, perché nel fortino di Arcore ormai non si parla d'altro. Mettendo nel conto le opzioni più radicali. Compresa la crisi di governo. Da provocare non ora, ma quando e soprattutto se i "messaggeri" dell'ex premier avranno maturato la convinzione che la Cassazione non offre «chances positive».

Il "Piano B" di Berlusconi è dunque pronto. Poggia su tre pilastri: il mantenimento dell'attuale legge elettorale - il Porcellum - il ricorso alle elezioni anticipate e il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. «È chiaro - va ripetendo il capo del centrodestra - che io non mi faccio incastrare dalle bugie di quei magistrati. Come ho detto a Brescia, "io ci sono e ci sarò". Se fosse per me, il governo Letta potrebbe durare anche tutta la legislatura, ma se la Cassazione...».

L'ex presidente del consiglio lo considera un extrema ratio, eppure ha messo a punto il suo "disegno" in quasi tutti i suoi aspetti e passaggi. Il punto di riferimento è costituito dai regolamenti parlamentari in vigore a Palazzo Madama e alla Camera. Perché? Basta leggere l'articolo 66 della Costituzione: «Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità».

Questo significa che se la Cassazione confermasse l'interdizione quinquennale dai pubblici uffici, toccherebbe comunque al ramo parlamentare di appartenenza stabilire se l'eletto va considerato "decaduto". Nel caso del Cavaliere, sarebbe al momento il Senato. Spetterebbe dunque alla Giunta delle Elezioni e dell'Immunità avviare la «Procedura di contestazione dell'elezione», così viene chiamata.

Una sorta di vero e proprio "processo" che nel caso dell'ex premier prevederebbe un relatore della Regione Molise, suo collegio elettorale. Il parere della Giunta poi dovrebbe ricevere il definitivo e vincolante via libera dall'aula. Ma gli attuali rapporti politici nella Giunta e nell'Assemblea non offrono alcuna garanzia al Pdl: il Pd con il M5S e Sel hanno la maggioranza per autorizzare la «decadenza».

Ed è questo dato numerico che sta inducendo l'ex premier ad imbracciare l'"arma finale": quella di provocare appunto la crisi di governo a ridosso della sentenza della Cassazione per poi chiedere le elezioni anticipate candidandosi non più a Palazzo Madama ma a Montecitorio. Con questo sistema elettorale, infatti, se il centrodestra dovesse prevalere alla Camera anche solo di un voto, avrebbe - grazie al premio - la maggioranza assoluta in aula e nella Giunta. A quel punto sarebbe scontato il voto contrario all'autorizzazione ad applicare la pena dell'interdizione.

Del resto, non solo la Costituzione ma anche tutti i precedenti avvalorano la necessità di un passaggio in aula prima di dare efficacia all'interdizione. I due più espliciti sono quelli di Mario Ottieri, deputato monarchico che nel 1967 - in seguito ad una condanna per bancarotta fraudolenta - decadde dalla carica dopo il voto formale dell'assemblea.

E lo stesso accadde nel '77 con Mario Tanassi (lo scossone arrivò per lo scandalo Lockheed). Più di recente Cesare Previti, Totò Cuffaro e per ultimo Giuseppe Drago nel 2010 si dimisero volontariamente prima che venisse formalizzato il giudizio dell'assemblea. Ma, come hanno verificato gli "esperti legali" di Berlusconi, non esistono precedenti in cui è stata negata la decadenza dal mandato parlamentare.

Se dovesse verificarsi questa ipotesi, lo scontro tra poteri dello Stato sarebbe clamoroso: il legislativo contro il giudiziario. Un conflitto che farebbe fibrillare le Istituzioni. Secondo gli studi più accreditati, infatti, e secondo le simulazioni che sono state consegnate sulla scrivania del presidente del Pdl, si darebbe luogo a un conflitto di attribuzione su cui dovrebbe pronunciarsi la Corte Costituzionale. Sarebbe il Giudice dell'esecuzione sostanzialmente i magistrati di Milano - a sollevare il conflitto contestando la distorta interpretazione dell'articolo 66 della Costituzione.

Ma in quel caso la "disputa" tra poteri dello Stato provocherebbe un vero sconquasso. Anche perché il Cavaliere si avvarrebbe politicamente anche del risultato delle ultime elezioni. «Come potrebbe qualsiasi giudice - è il suo provocatorio interrogativo - dare ragione ai magistrati in un conflitto del genere e respingere il consenso popolare che i sondaggi già mi attribuiscono?».

Non solo. I "tecnici" del Pdl avrebbero fatto notare che la scelta di far precipitare il Paese al voto anticipato deve comunque avvenire prima che la Cassazione si esprima: in caso di condanna infatti, se anche Berlusconi non decadesse immediatamente, non potrebbe ricandidarsi perché tra i requisiti necessari resta il godimento dei diritti politici che mancherebbe in presenza dell'interdizione dai pubblici uffici. A meno che non sfrutti quel particolare "limbo" che separa la lettura della sentenza dalla sua pubblicazione, momento nel quale effettivamente è operativa la pena.

E del resto che Berlusconi sia particolarmente alla questione, lo dimostra l'insistenza con cui ha bloccato proprio a palazzo Madama gli accordi sulle cosiddette commissioni di garanzia, quelle presiedute da un esponente della minoranza. L'obiettivo - che sembra raggiunto era quello di assegnare la presidenza della Giunta per le Elezioni e l'Immunità ad un esponente della Lega, Raffaele Vulpi, e non ad un grillino o a un senatore di Sinistra e Libertà. Ma la "vera battaglia" ci sarà alla fine dell'anno.

 

 

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