MAFIA CRAC! - SE CHIUDONO CANTIERI E SI FERMANO GLI APPALTI, I PRIMI A SOFFRIRE SONO I POVERI PICCIOTTI

Lirio Abbate per "l'Espresso"


Non ci sono più cantieri da taglieggiare. Sono ferme le opere pubbliche su cui lucrare con subappalti e racket. I commercianti hanno le casse vuote ed è inutile insistere con il pizzo. Sì, la crisi adesso colpisce anche la mafia. La base, almeno, perché i capi, con questa crisi, saranno gli unici a ottenere benefici economici.

I picciotti però non hanno soldi in tasca: le famiglie dei detenuti non ricevono sussidi adeguati e tutti devono stringere la cinghia. Per la prima volta nella sua storia secolare il popolo di Cosa nostra a Palermo è in difficoltà economiche. Ci voleva la recessione per mettere in ginocchio i mafiosi.

Finora le disgrazie nazionali come guerre, terremoti e alluvioni erano state trasformate in occasioni di guadagno. Invece in questi mesi la situazione si sta facendo pesante. Perché mentre i piani bassi faticano ad arrivare a fine mese, i padrini continuano a vivere nel lusso. E questo mette a rischio il muro di consenso che garantisce il potere dell'organizzazione sul territorio: i generali brindano con lo champagne e vanno in giro con vetture di grossa cilindrata, mentre i soldati non sanno come pagare l'assicurazione dell'auto e sono costretti a inventarsi di tutto.

Gli abiti che indossano vengono dai furti nei negozi o dei furgoni che distribuiscono abbigliamento; rubano la corrente elettrica o smettono di pagare le bollette, convinti che nessuno verrà a staccare le utenze nei "loro" quartieri, ormai sempre più abbandonati anche dall'amministrazione comunale.

I picciotti stanno "cannibalizzando" la città: chilometri di cavi di rame dell'elettricità spariti quasi ogni giorno in pieno centro lasciando quartieri al buio, tombini e caditoie in ghisa portati via dalle strade, pomelli in ottone rubati dalle porte dei palazzi, per racimolare qualche euro al mercato nero.

In provincia il furto di bestiame torna a essere un ottimo affare: portano mandrie del valore di centinaia di migliaia di euro, destinate alla macellazione clandestina. I boss poi sempre più spesso chiudono un occhio su furti, scippi e rapine compiute dai "poveri" affiliati: reati che stanno conoscendo un boom anche a Palermo. E fanno crollare la fiducia nella mafia come garante della sicurezza. Insomma, c'è il rischio che l'autorità di Cosa nostra si sgretoli per colpa della carenza di piccioli, di liquidi.

LA FINANZIARIA DEI CLAN
Per questo i padrini più accorti hanno varato una specie di "Finanziaria". Con un duplice obiettivo: risolvere i problemi pratici degli uomini d'onore e riconquistare il sostegno della popolazione. La linea strategica è quella indicata da Matteo Messina Denaro, il latitante ricercato da vent'anni e da sempre il miglior economista della mafia. Già alcuni anni fa ha suggerito ai palermitani di non pressare i negozianti con richieste di tangenti che non possono essere soddisfatte. E di puntare al business della gestione diretta del traffico di cocaina.

Ora tre indagini confermano che le sue indicazioni sono state recepite. Le inchieste condotte dai carabinieri del Comando provinciale di Palermo, che negli ultimi mesi hanno arrestato su ordine della magistratura un centinaio di mafiosi, mostrano come le cosche stiano articolando la spending review. Puntando sui business del passato, e sull'asse con il Nord e il Sud America per potenziare l'importazione di droga.

PREVIDENZA CRIMINALE
Il modello di sopravvivenza è stato introdotto dall'ultimo capo di Porta Nuova, uno dei più importanti mandamenti di Palermo, quello del fattore di Arcore, Vittorio Mangano, per intenderci. Al vertice due anni fa è stato nominato un giovane boss, Alessandro D'Ambrogio, 39 anni, impresario di pompe funebri, arrestato nelle scorse settimane. D'Ambrogio non ha rinunciato al lusso: dopo anni di carcere si è concesso parecchi sfizi, inclusa una gran bella barca al molo dell'Arenella e una cantina sempre provvista di Moët & Chandon.

Ma il suo stile agguerrito e spregiudicato gli ha fatto guadagnare il rispetto dei mafiosi più influenti degli otto mandamenti in cui è divisa la città. Era sempre in prima fila in tutte le manifestazioni popolari di piazza, con la colonna sonora cantata dai neomelodici (che lanciano messaggi ai detenuti e dediche ai capomafia), così come alle feste religiose o alle sagre: tutti gli chiedevano il permesso per vendere sigarette di contrabbando, un'attività in rapida ripresa, o per mettere bancarelle di "cibo da strada" come le frattaglie o lo "sfincione", la pizza rossa al taglio.

Un sistema, come ha spiegato il pentito Fabio Tranchina, fedelissimo dello stragista Giuseppe Graviano, per far comprendere che «il boss è il padrone della terra su cui si cammina e per questo occorre sempre la sua autorizzazione».

Per fronteggiare la crisi, D'Ambrogio ha adottato lo stile dei vecchi mammasantissima e si mette a disposizione dei picciotti e delle famiglie dei detenuti per risolvere i loro problemi. Le intercettazioni dei carabinieri hanno registrato il suo intervento per trovare una casa al figlio di un recluso che ha «evidenti difficoltà economiche». Il boss si dà da fare, ma il ragazzo si lamenta perché non ritiene l'abitazione all'altezza dei posti dove viveva in passato. E questa insoddisfazione scatena l'ira di D'Ambrogio che, dopo averlo redarguito, gli spiega che lui non doveva comportarsi in quel modo e che in ogni caso doveva ringraziarlo e capire che «i tempi sono duri per tutti».

Nel suo ufficio di capomafia in un negozio di onoranze funebri nel quartiere popolare di Ballarò, ogni giorno dava udienza al suo popolo. Una coda di questuanti che gli riferivano i guai quotidiani: dalle beghe familiari all'impossibilità di reperire il minimo indispensabile per vivere. E lui, con pazienza, cercava una soluzione, evitando liti violente. Secondo i carabinieri, l'attivismo del padrino paciere aveva scopi pratici: «Abbattere i rischi delle imposizioni del "pizzo", soggette a denunce da parte delle vittime, mantenendo in ogni caso ben saldo nelle proprie mani il controllo del territorio.

Un'attività che, se a prima vista potrebbe sembrare secondaria, analizzata più a fondo permette di comprendere che in determinati contesti urbani il disagio sociale associato alla mancanza di lavoro, fa sì che il cittadino trovi nel mafioso il modello di riferimento per avere una risposta immediata al proprio problema». Per gli investigatori questo elemento «non è di poco conto se si considera che la "Mafia" mostrandosi quale referente capace di risolvere problemi, non viene più vista come elemento di oppressione e prevaricazione, ma come un valido alleato». In questo modo lo Stato perde.

NO PIZZO
I primi settori a risentire della crisi sono stati l'edilizia e il commercio, i bacini che alimentavano i taglieggiamenti e le scorte di contanti. Oggi i cantieri sono fermi, molte attività commerciali sono fallite e i negozianti sull'orlo della chiusura. Molti clan hanno già ridotto il pizzo da tre a due rate annuali, mantenendo quella di Pasqua e di Natale, ma rinunciando a Ferragosto. La richiesta del pizzo è irrinunciabile per la mafia, perché attesta presenza e potere sul territorio.

Eppure i mafiosi a Palermo hanno più timore a mettere in atto le estorsioni perché la vittima, divorata da tasse e debiti, è pronta a denunciare. E trova sponda nelle associazioni antiracket, così come nei contributi statali per aiutare chi subisce attentati. Così D'Ambrogio si dimostra un «capomafia lungimirante»: usa i metodi tradizionali per costruire il futuro. «Sopperisce alla mancanza di danaro con grandi introiti frutto del traffico di stupefacente, talvolta reinvestiti in attività più o meno lecite, ma soprattutto mantiene un profilo basso, riducendo al minimo le imposizioni del "pizzo". Allo stesso tempo acquista un largo consenso tra la popolazione, aumentando di conseguenza la forza dell'organizzazione», spiegano gli inquirenti.

Con questa sorta di previdenza sociale ha aumentato pure il suo prestigio personale, tanto che si sono rivolte a lui sempre più spesso persone esterne al territorio di Porta Nuova. E il boss non si tirava mai indietro, lasciando intendere che poteva assumersi responsabilità anche fuori dai confini storici, cosa che in passato non è mai accaduta. «Questa è la conferma del fatto che, in ogni caso, era il personaggio mafioso di riferimento di tutti i mandamenti cittadini».

BACK TO COCA
Nell'ultimo ventennio i siciliani avevano trascurato il grande traffico di droga, lasciando spazio ai calabresi e ai napoletani. Troppi rischi, sia per importare sia per spacciare. E così avevano preferito lo sfruttamento di racket e appalti. Adesso gli stupefacenti ricominciano a essere invece la risorsa principale, con la mafia che torna a impossessarsi delle rotte internazionali e delle piazze di smercio. Cosa nostra si rimette in proprio e riprende il controllo dell'intera filiera del narcotraffico.

Anzitutto le forniture: dal Sud America (attraverso la penisola iberica), in particolare Perù, Bolivia e Colombia per la cocaina; dal Nord Africa per l'hashish. Altre sostanze stupefacenti dal Canada. Il mandamento di Porta Nuova a Palermo - secondo quanto accertato dai carabinieri - ha preso accordi con altre famiglie siciliane a cominciare da Mazara del Vallo in provincia di Trapani. Da qui salpano pescherecci che servono anche per trasportare i carichi di "neve", poi smistati in tutta l'isola. Gli agenti dell'antidroga della Squadra mobile di Palermo hanno accertato che a Palermo arriva "pasta di coca", poi raffinata e tagliata in modo da aumentare i guadagni.

Acquistata a poco prezzo dai produttori, può fruttare ai mafiosi che la spacciano anche 300 volte l'investimento iniziale. Dopo decenni, sono tornate all'opera le raffinerie. Il pentito Andrea Bonaccorso ne ha indicata una in una villetta fra le campagne di Altavilla Milicia e Casteldaccia alle porte di Palermo; un'altra è stata scoperta dagli investigatori a Villabate. Infine una terza a Villagrazia, nel cuore del regno che era del padrino Stefano Bontate, che negli anni Settanta con l'eroina fece nascere l'impero moderno di Cosa nostra prima di venire abbattuto dai corleonesi.

Un paradosso: il laboratorio criminale era in una villa confiscata proprio a un mafioso del clan di Bontate. L'immobile, affidato al Comune di Palermo, era rimasto abbandonato e i nuovi narcos se ne sono impossessati.

La droga collega ancora le due sponde dell'Oceano, in particolare il Canada e Bagheria. Nella cittadina siciliana lo scorso settembre aveva trovato rifugio un noto esponente di Cosa nostra canadese legato alla famiglia Rizzuto: Juan Ramon Fernandez Paz, espulso dal suo Paese dopo aver scontato una condanna a 10 anni di carcere. A Bagheria si era rimesso in affari, ma è stato ucciso nelle campagne di Casteldaccia: l'ordine potrebbe essere arrivato dal Canada perché Fernandez aveva organizzato un canale di rifornimento autonomo dal Canada e dal Sud America con l'aiuto di palermitani. Bypassando così i suoi antichi referenti, che avrebbero risposto con il piombo.

IL PONTE DI BROOKLYN
La crisi sta anche rinsaldando i legami con la "Cosa nostra" americana. Dalle indagini dei carabinieri emerge un episodio che fa comprendere i rapporti fra i palermitani e lo storico clan Gambino di New York. La vicenda riguarda un vecchio mafioso, Salvatore Lombardo, che dopo vent'anni ha fatto ritorno per pochi giorni al suo paese, Montelepre, solo per risolvere alcune pratiche.

L'uomo voleva ottenere una sorta di certificato dalla sua famiglia mafiosa che gli avrebbe consentito di ricevere un sussidio negli States. Sì, i padrini della costa atlantica per evitare pentimenti garantiscono la pensione ai vecchi affiliati, basta che abbiano le carte in regola. Così Lombardo ha consegnato al capomafia di Montelepre una lettera dei Gambino di New York. In questa missiva si chiedeva la garanzia «della qualità di uomo d'onore di Salvatore Lombardo» e poi «la conferma del fatto che fosse stato messo fuori famiglia a Montelepre, per potere poi essere formalmente affiliato a New York».

Una questione burocratica fondamentale: non si può essere appartenenti a due clan contemporaneamente. Si è scoperto così che esiste un vero e proprio istituto di previdenza gestito dai Gambino che, come tutti gli uffici che si rispettino, se non ci sono i documenti a posto, non può dare corso alla pratica. E così, senza la testimonianza della famiglia, anche i mafiosi di lungo corso rischiano di trovarsi "esodati".

RIFONDAZIONE RURALE
Un altro effetto della situazione economica è lo spostamento dell'asse di potere verso le campagne, dove Cosa nostra è ancora governata rigidamente con le vecchie regole. Le indagini rivelano come la "mafia rurale" rimane incentrata su un'economia pastorizia e agricola, i cui maggiori valori restano la terra e il rispetto della comunità in cui si opera, e si propone ancora oggi come un vero e proprio anti-Stato: le controversie private vengono risolte davanti al capomafia, che si sostituisce al giudice. E questa mafia è ben distante da quella di Palermo.

Dalle intercettazioni appare, infatti, chiaro il distacco fra la città e la provincia. Nella zona fra Altofonte e San Giuseppe Jato, un tempo regno di Bernardo Brusca, oggi i mafiosi dicono «con i palermitani non ci vogliamo avere niente a che fare», evidenziando una profonda spaccatura culturale nella storia mafiosa. Tanto da avere creato un nuovo, grande mandamento che racchiude molti paesi.

L'organizzazione sembra voler ripristinare gli antichi equilibri, affidandosi ai vecchi boss che tornano in libertà come garanti del rispetto e delle tradizioni. E con la crisi anche una delle attività arcaiche è di nuovo proficua: il furto di bestiame. L'abigeato da alcuni anni è stato depenalizzato: si rischia solo una multa. Così centinaia di capi di bestiame vengono portati via dagli allevamenti, alimentando la macellazione clandestina e le aziende agricole dei boss.

Solo i furti documentati dai carabinieri negli ultimi mesi riguardano 250 capi di bestiame per un valore di circa 300 mila euro. Intimidazioni e razzie si stanno diffondendo in tutti i territori dove più radicato è il potere delle cosche (vedi box). Pochi lo ricordano: negli anni Cinquanta furono proprio i commerci di bovini rubati a segnare la nascita dell'epopea dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ora Cosa nostra tenta di ripartire da dove tutto è cominciato.

 

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