MONTEPACCHI FOREVER! IDEA-ALLEANZA CON LE POSTE PER UNA NAZIONALIZZAZIONE “SOFT”

Camilla Conti e Luca Piana per "l'Espresso"

Se il piano andrà in porto, c'è da scommettere che i goliardi senesi ribattezzeranno la banca cittadina il "Monte dei Pacchi". Perché una delle strade che il Monte dei Paschi potrebbe prendere in futuro passa attraverso un'alleanza con le Poste italiane. È questa l'ipotesi contenuta in una proposta che, a quanto risulta a "l'Espresso", è stata portata nelle ultime settimane all'attenzione del presidente del Consiglio, Enrico Letta.

Non si tratta ancora di un vero e proprio progetto ma, piuttosto, del tentativo di sondare la disponibilità del governo a sostenere un'unione che coinvolgerebbe una società partecipata dallo Stato. E, da sempre, crocevia di grandi interessi e appetiti politici.

Tutto nasce dall'esigenza di restituire un assetto stabile al Monte dei Paschi, una volta sgomberato il campo dalle macerie lasciate dalla vecchia gestione. A livello operativo, il nuovo presidente Alessandro Profumo e l'amministratore delegato Fabrizio Viola stanno ottenendo i primi risultati. La banca ha chiuso il primo trimestre del 2013 con 100 milioni di euro di perdita, meglio dei 136 previsti dagli analisti.

È in anticipo di due anni sul programma di chiusura di 400 filiali, che sarà completato già dopo l'estate. E, soprattutto, ha visto un'inversione di tendenza nell'andamento dei ricavi, che per la prima volta dopo un lungo periodo hanno ripreso a crescere.

Profumo e Viola, tuttavia, non possono permettersi di tirare il fiato nemmeno per un giorno. Entro il 17 giugno, infatti, dovranno presentare alla Commissione europea una nuova versione del piano industriale, indicando come ripagheranno il prestito pubblico di 4 miliardi ottenuto dal governo di Mario Monti per mettere in sicurezza i conti della banca. Già quest'anno, infatti, se non riuscirà a pagare gli interessi sui cosiddetti Monti Bond, l'istituto dovrà aprire il capitale allo Stato.

Non sono cifre da poco: ogni giorno che passa, l'istituto deve mettere da parte un milione solo per saldare gli interessi correnti dovuti al governo. Senza parlare dei soldi che serviranno più avanti - nel giugno 2015 - per restituire la parte più consistente del debito, ovvero le quote di capitale.

Passato il cerchio di fuoco del via libera di Bruxelles, Profumo e Viola dovranno però preoccuparsi di indicare che cosa la banca farà da grande. La strategia di base è già indicata: il Monte sarà una banca commerciale lontana dai grandi giri della finanza, focalizzata su clienti come le famiglie e le imprese piccole e medie. Ma chi saranno gli azionisti è un rebus tutto da risolvere.

La Fondazione Mps, l'istituzione governata dagli enti locali, per ridurre i propri debiti dovrà alleggerire la propria quota di controllo, scendendo dall'attuale 33,7 per cento a una partecipazione compresa tra l'8 e il 15. Ma il prossimo anno il Monte dovrà fare un aumento di capitale da un miliardo di euro, denari essenziali per iniziare a ripagare i debiti contratti con lo Stato.

Chi ci metterà i quattrini? La Fondazione no. E nel capitale, finora, non si è affacciato in modo stabile nessun grande investitore, a dispetto del risanamento in corso. In Borsa il titolo fatica a riprendere quota e sconta ancora la forte esposizione in titoli di Stato, di cui il Monte ha fatto indigestione negli ultimi anni. Al punto che lo stesso vertice della banca è consapevole che gli speculatori considerano le azioni del gruppo come una sorta di «grande derivato sui Btp».

Troppi, dunque, i punti interrogativi. Oltre al via libera della Ue, l'assemblea deve ancora abolire il tetto che blocca al 4 per cento il diritto di voto degli azionisti diversi dalla Fondazione. E, soprattutto, manca ancora qualsiasi indicazione su chi saranno i prossimi soci di riferimento.

È su questo punto che fa leva il progetto presentato al governo Letta, incardinato sulla Cassa Depositi e Prestiti.

La Cassa è una sorta di banca pubblica, che si finanzia con i risparmi che gli italiani depositano nei libretti e investono nei buoni fruttiferi venduti agli sportelli delle Poste, delle quali è stata anche azionista fino al 2010. L'idea è quella di dare il via a un'alleanza fra il Monte e il BancoPosta, per sfruttare i rispettivi punti di forza: la prima è una vera banca, dotata di una licenza creditizia piena; la seconda ha invece un'enorme potenza di fuoco, grazie ai 13.676 uffici postali diffusi capillarmente sul territorio nazionale, dai paesini degli Appennini alle maggiori città.

L'operazione potrebbe svilupparsi per gradi: in una prima fase l'accordo sarebbe di carattere commerciale con la selezione di alcune agenzie postali dove vendere anche prodotti del Monte. In seguito la partnership verrebbe rafforzata attraverso la costituzione di una società ad hoc - partecipata sia dalla banca sia dalle Poste - che avrebbe il compito di gestire una rete comune di sportelli.

Questo il piano sul fronte industriale. In parallelo, la Cassa Depositi e Prestiti - presieduta oggi da un ex senatore da sempre vicino ai poteri senesi, Franco Bassanini, e diretta dall'amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini, confermati per un triennio poche settimane fa - avrebbe un ruolo chiave nella ricapitalizzazione del Monte.

In attesa dell'arrivo di un investitore che apporti capitali freschi, la Cassa potrebbe far entrare nell'azionariato dell'istituto il suo braccio finanziario, il Fondo Strategico Italiano, che di recente ha rilevato le quote nelle Assicurazioni Generali vendute dalla Banca d'Italia. Una stampella pubblica meno invadente dell'impegno diretto dello Stato e dunque più digeribile per le autorità europee.

In Europa le operazioni di questo genere sono state parecchie. Il colosso olandese Ing, quello del conto arancio, è nato proprio così, quando nel 1991 si sono fuse la compagnia assicurativa Nationale Nederlanden e la Nmb Postbank. In Germania è stata seguita una strada simile nel 2008, con l'unione tra le poste tedesche e il big nazionale del credito, Deutsche Bank. Mentre nel 2011 l'istituto austriaco Bawag Psk ha dato vita con l'azienda dei servizi postali a una rete di 500 filiali congiunte, in cui i clienti possono indifferentemente spedire un pacco e sottoscrivere un mutuo.

Se messa così sembra semplice, più si entra nel dettaglio più le difficoltà che un progetto del genere dovrebbe superare appaiono grandi. Lo dimostra l'incertezza sulla sua paternità: se alcune fonti lo attribuiscono ai vertici del Monte, altre negano questa lettura e chiamano in causa una delle tante banche d'affari che propongono alle istituzioni delle ricette per risolvere i loro problemi. Queste stesse fonti giudicano in particolare molto cauta, se non fredda, la reazione di Profumo all'ipotesi.

I problemi principali sono due. Il primo sta nei rapporti fra il BancoPosta e la sua casa madre, guidata oggi da Massimo Sarmi. La vendita di prodotti di risparmio e servizi finanziari negli uffici postali garantisce al gruppo pubblico la sua stessa sopravvivenza: i ricavi di queste attività (5,1 miliardi di euro) nel 2012 hanno infatti superato i proventi dei servizi postali (4,5 miliardi).

In pochi anni il BancoPosta ha raggiunto un record di conti correnti (5,8 milioni) e di carte prepagate (9,5 milioni). E di recente ha iniziato a vendere oro e soprattutto a collocare prodotti finanziari fuori sede, porta a porta, o presso le sedi delle imprese.

Finché la società è una sola, non ci sono problemi di ripartizione dei costi e dei profitti fra i due diversi business, la gestione dei conti correnti e la spedizione di lettere e pacchi. È per questo motivo che il gruppo ha finora resistito alle pressioni dell'Antitrust e della Banca d'Italia per una separazione contabile più netta, una mossa che sarebbe necessaria per evitare i rischi di sussidi incrociati, avere la vigilanza delle banche e un'integrazione a livello di sistema di pagamenti. Una prospettiva, questa, per la quale si era speso anche l'attuale ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, quando era direttore generale della Banca d'Italia.

Se il BancoPosta fosse reso completamente autonomo, quest'opacità andrebbe dunque rimossa, soprattutto se non restasse di proprietà dell'unico socio Stato, com'è oggi con le Poste tradizionali. Il secondo problema è invece come trovare un equilibrio fra i due possibili alleati. Da una parte c'è una banca come il Monte, che tenta di uscire da un periodo nerissimo e che, oggi, ha bisogno di trasparenza per ritrovare la fiducia degli investitori. Dall'altra c'è un gruppo che è sempre stato sottoposto al controllo pubblico, con tutto quello che ne deriva in termini di gestione delle poltrone.

Se qualcuno giudica questi ostacoli quasi insuperabili, è però altrettanto vero che il matrimonio risolverebbe diverse partite che il governo Monti ha lasciato in eredità a Letta. Non c'è solo l'esigenza di sistemare il Monte, allontanando lo spettro di una nazionalizzazione totale dell'istituto.

Ci sarebbe anche l'opportunità di trasformare il BancoPosta in una vera banca, con una licenza bancaria piena, come accade ad esempio in Francia. Capace se volesse anche di prestare quattrini ai propri clienti. E, magari, di riportare d'attualità quei progetti di privatizzazione che, di tanto in tanto, tornano nell'agenda dei governi.

Il paradosso delle nozze, felice o infelice che si voglia, sarebbe dunque quello di ottenere una semi-privatizzazione del BancoPosta attraverso un parziale ritorno del Monte Paschi in mano pubblica. Un progetto ardito, anche per un Paese come l'Italia, da sempre amante delle soluzioni complicate. Ma che, nei prossimi mesi, non smetterà di agitare le schiere dei favorevoli e dei contrari.

 

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