AMERICAN SYSTEM E L’IPOCRISIA ITALIANA - NEGLI STATES IL FINANZIAMENTO PRIVATO AI PARTITI SI DETRAE DALLE TASSE ED E’ INCOMPATIBILE CON QUELLO PUBBLICO - LA SFIDA OBAMA-ROMNEY E’ GIA’ COSTATA CIRCA 6 MILIARDI DI DOLLARI - TRA I SUPERDONATORI E LE MASSAIE CHE VERSANO 20 DOLLARI, IN AMERICA IL FINANZIAMENTO ALLA POLITICA E’ TRASPARENTE E A VOLTE CONVENIENTE - SOLO A OTTOBRE, MEZZO MILIARDO DI DOLLARI A BARACK E MITT…

Paolo Guzzanti per "il Giornale"

Sei miliardi di dollari, questa sarebbe la cifra calcolata ad oggi per la spesa complessiva delle elezioni americane. È un record: la politica costa non solo molto, ma sempre di più. Vi suona un campanello in testa? Già: la questione italiana del costo della politica.

Possiamo fare analogie e confronti con la situazione americana? Sì, ma soltanto per dire che non esiste alcun termine di confronto, se non una lezione di cui prendere nota. In America il finanziamento pubblico esiste, per chi lo vuole. Ma se qualcuno (candidato o partito) sceglie il finanziamento pubblico, poi non può ricevere donazioni dai privati.

Se lo fa, il candidato o il responsabile di partito va in galera, come Al Capone che andò in galera non per gli omicidi commessi ma per evasione fiscale. E qui già affiora il mio primo ricordo sulla situazione italiana messa a confronto: quando andai a intervistare Franco Evangelisti nel 1980 e quello mi raccontò con spudorata franchezza romanesca come andasse con il libretto degli assegni aperto a chiedere a ciascuno «A Fra', che te serve? Quanto vuoi?», esisteva già da sei anni il finanziamento pubblico dei partiti.

Gli chiesi allora come poteva giustificare le regalie ai partiti. Evangelisti, sempre nel suo romanesco spudorato, mi rispose: «Embé? Che male c'è? Se sommano, no? Tu piji i soldi dello Stato e pure quelli der privato». Ecco, da noi, né allora né oggi, per questo comportamento si va in galera. Come mai?

Per capirlo, come nei buoni romanzi d'appendice, bisogna fare un passo indietro e magari anche due. E tornare alla lunga stagione, quasi quarant'anni dalla fine della guerra, durante la quale accadeva in Italia un altro fenomeno strano: l'assoluta impunità con cui il Partito Comunista incassava annualmente e illegalmente una valigia contenete parecchi milioni di dollari, come ha ben documentato a suo tempo Valerio Riva nel suo «Oro da Mosca».

Il fatto strano non è che il Pci si facesse finanziare da Mosca scardinando le regole della competizione democratica, ma che questa violazione della legge avvenisse con la tacita complicità degli altri partiti italiani, Dc in prima fila, i quali erano anzi ben contenti che i comunisti si finanziassero illegalmente.

Perché erano contenti? Ma è semplice. Dicevano: se lo fanno i comunisti, lo facciamo anche noi. Non dobbiamo forse sostenere le spese per il mantenimento dei partiti, degli apparati, dei giornali, delle campagne elettorali? Certo che sì. E il finanziamento pubblico (quando arrivò con la legge Piccoli il 2 maggio del 1974) diventò un aggregato del finanziamento complessivo totalmente illegale.

Mi disse Francesco Cossiga: «Quando l'inviato del Pci tornava da Mosca con la sua valigia piena di dollari, lo andavamo a ricevere noi del ministero degli Interni insieme agli americani che volevano esser certi che i dollari non fossero falsi. Poi lo scortavamo allo Ior vaticano per il cambio e ognuno se ne tornava a casa soddisfatto».

Per forza erano soddisfatti: il Pci barava e commetteva illeciti con la certezza dell'impunità (nessuno voleva la guerra civile con il Pci, sempre più integrato nel gioco) e tutti gli altri dietro, con la stessa certezza della stessa impunità. Così girava il mondo e da quei giri deriva il cataclisma successivo.

Quando il 3 luglio del 1992 Bettino Craxi alla Camera in un famoso discorso che si agganciava a quanto avveniva nel Paese con l'operazione Mani Pulite ricordò a tutti come stavano le cose e che - come dicono a Roma - il più pulito ha la rogna, nessuno alzò e nessuno fiatò neanche quando il leader socialista li chiamò tutti correi dello stesso reato. Nessuno fece una piega, e neanche un plissé, come cantava un tempo Jannacci.

E dunque Tangentopoli non fu che una complessa operazione di dubbia origine e regia (ci fu chi sostenne che gli americani avevano deciso di eliminare la classe dirigente italiana corrotta di cui non avevano più bisogno) e tutto cambiò, a chiacchiere, affinché nulla cambiasse e i risultati li abbiamo sotto gli occhi.

Dunque il ladrocinio ha una sua storia e una sua genetica di fronte alla quale non serve a niente gridare al ladro, strapparsi le vesti e vomitare di fronte alle porcate, le ruberie, le magnate. Ciò che è cambiato, al massimo, è che oggi si ruba di più per se stessi e meno per il partito, cosa che di per sé non costituisce un certificato di virtù.

Ma torniamo alle elezioni americane e ai sei miliardi di dollari che fin qui sono stati gettati nel calderone per interventi nelle televisioni (ci sono anche le elezioni per il Congresso e dunque spendono e spandono anche i singoli candidati) nelle radio, sui giornali, via Internet eccetera. Da dove vengono questi soldi, da dove arriva il tesoro? Dai fondi pubblici? No, salvo spiccioli, i soldi vengono dai privati. Dai comitati. Dagli elettori, dalle associazioni, dai comitati, dalle cene di sostegno, dalle raccolte di fondi porta a porta.

Poi ci sono i big donors che tirano fuori milioni e le massaie o i commessi viaggiatori che tirano fuori una manciata di dollari. Tutti i soldi arrivano spontaneamente e volontariamente proprio da quella che noi chiamiamo enfaticamente società civile e che in realtà è la gente comune, miliardari e homeless (barboni) inclusi. Certo, tutti hanno un vantaggio: le donazioni possono essere detratte dalle tasse e dunque in quella fantastica macchina di democrazia che è l'America, donare talvolta conviene. È così che germogliano e vivono anche i più bei musei del mondo, gli istituti di ricerca, le scuole, i parchi, tutto ciò che può includere la figura del donatore ritratto in bronzo all'ingresso dell'istituzione che ha finanziato.

Ma quel che più conta oggi è la massa di donatori, finanziatori, che danno al massimo cento o duecento dollari ma più spesso venti o trenta. Questo accade perché la politica in America è una cosa viva che riguarda tutti e riguarda tutti perché dal voto si decide il destino di ciascuno: posti di lavoro, mutui, la scuola per i figli, l'assicurazione sanitaria.

Ognuno vota pensando ai propri interessi, al proprio sano egoismo anche quando l'egoismo consiste nel condurre battaglie ideali. L'America in queste ultime ore prima del voto di domani è una selva di comitati, di sigle, di iniziative e soltanto nel mese di ottobre i sostenitori privati, quelli della pubblica opinione, hanno speso per i due candidati alla presidenza mezzo miliardo di dollari.

È tutto legale ed è un vortice di ricchezza che vola, ricade, si ferma, riparte. Una larga parte dell'elettorato non andrà a votare, come sempre accade, e questo non è uno scandalo ma un'espressione di libertà. La democrazia non impone obblighi ma regole semplici e scrupolosamente rispettate. Ah, dimenticavo: in questa kermesse popolare non esistono le preferenze. I candidati si scontro uno contro l'altro, uno vince e uno perde, fine della storia. Qui da noi? È un'altra storia e mentre ci servirebbe d'urgenza una nuova storia.

 

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