LA PARTITA DEL COLLE SCATENA L’ARMAGEDDON NEL PD

Claudio Cerasa per il Foglio

Nella complicata e per molti versi indecifrabile partita a scacchi che il centrosinistra sta giocando in vista dell'elezione del prossimo presidente della Repubblica, le mosse di Pier Luigi Bersani saranno condizionate dalle varie microesplosioni che in questi giorni hanno rivoluzionato la geografia interna al Partito democratico.

L'intervista, clamorosa, rilasciata ieri alla Stampa da Rosy Bindi, che da presidente del Pd ha bocciato la strategia del segretario con la quale si "rischierebbe di regalare a Berlusconi le chiavi del nostro cosiddetto governo del cambiamento", è solo l'ultimo dei numerosi segnali d'insofferenza arrivati all'orecchio di Bersani - che da tempo è ormai consapevole del fatto che sotto di lui esiste un partito che forse è esagerato definire sull'orlo di una scissione ma che giorno dopo giorno sta comunque assumendo sempre di più le sembianze di una grande e minacciosa pentola a pressione.

All'interno di questa pentola, Bersani sa che ogni corrente rappresenta un ingrediente con cui dovrà fare i conti per presentarsi il 18 aprile con in mano una scelta digeribile per la pancia del partito. E in questo senso, per orientarsi lungo il percorso, può essere utile andare a capire quali sono le posizioni dei vari azionisti del Pd. Dagli ex Ppi ai lettiani. Dai turchi ai bersaniani. Da Renzi a D'Alema (i due ieri si sono incontrati a Firenze a Palazzo Vecchio, e l'ex premier, oltre a parlare di Quirinale, ha dato a Renzi la garanzia che non farà battaglie scissioniste se dovesse essere il Rottamatore il prossimo leader).

Primo punto: qual è il piano dei bersaniani? Lo schema è semplice. Il segretario è convinto che la strada da seguire sia il modello Andreotti 1976 e crede che attraverso una condivisione del Quirinale con il centrodestra sia possibile far partire un governo di minoranza simile a quello costruito trentasette anni fa da Andreotti e Berlinguer. Un governo che vivrebbe dunque "forte" della non sfiducia di una coalizione. Ma di quale?

Come riconosciuto ieri a Radio 24 dal direttore dell'Unità Claudio Sardo, "vista la posizione assunta dai 5 stelle, è vero che l'atto di nascita di questo governo non sarebbe possibile se il Pdl non consentisse questo schema".

E dunque, nonostante Bersani appena un mese fa abbia promesso che non sarebbe stato "praticabile né credibile in nessuna forma un accordo di governo fra noi e la destra berlusconiana", alla fine potrebbe essere proprio l'"inciucio mascherato" con il Pdl a far partire un governo a guida Pd (considerando anche il fatto che, secondo i bersaniani, il prossimo capo dello stato, avendo il potere di sciogliere le Camere, potrà correre il rischio di far andare in Parlamento un presidente del Consiglio anche senza che questi gli offra la garanzia dei "numeri certi"). Questo pensa Bersani. Il resto del Pd però, sul tema, sembra avere idee leggermente diverse, diciamo.

Il "modello Andreotti" evocato da Bersani - che prevede al Quirinale una figura neutrale che faccia da contrappeso al governo a guida Pd (schema da tempo suggerito al segretario da Enrico Letta) - non si può dire infatti che sia stato accolto con entusiasmo dal centrosinistra.

E si spiegano anche così le scosse violenti registrate in questi giorni all'interno del Partito democratico. Da una parte, le scosse sono arrivate da un fronte nuovamente compatto, quello degli ex Popolari; che, seppure con diverse gradazioni (qualcuno vorrebbe Romano Prodi al Quirinale, qualcun altro vorrebbe Franco Marini), ha segnalato le fragilità presenti nel piano Bersani (ieri Bindi, mercoledì Franceschini, il giorno prima Fioroni) e ha scelto di scommettere, in caso di fallimento del segretario, su uno scenario che finora il leader del Pd ha sempre escluso: il governo del presidente (soluzione che tra l'altro permetterebbe alla vecchia nomenclatura Pd di concedersi un altro giro ed evitare l'eventuale rottamazione alle elezioni).


Dall'altra parte, invece, chi in questi giorni ha criticato la formula dell'"inciucio mascherato" immaginato da Bersani, è stato il fronte dei renziani. E i sostenitori del sindaco giocano una partita che, per quanto i 51 parlamentari renziani potranno avere un peso sul Quirinale, avrà comunque un riflesso sulla battaglia per il post Napolitano.

I renziani - che senza poterlo dire apertamente sospettano che l'avvicinamento forzato di Bersani e Berlusconi sia stato condizionato anche dal terrore dei due Ber. di ritrovarsi improvvisamente alle elezioni con un Renzi più forte che mai - sono convinti che vada smascherato l'inciucio a bassa intensità che il segretario vorrebbe stringere con il Pdl ("Ma come diavolo si fa a fare un governo di cambiamento con un governo di minoranza che ogni giorno sarebbe ostaggio di Berlusconi"). Ed è anche per questo che in vista del voto per il Quirinale i renziani - al contrario di Bersani - hanno intenzione di schierarsi a favore di un profilo alla Romano Prodi (da sempre in buoni rapporti con il sindaco di Firenze).

Un profilo, questo, che darebbe la garanzia al sindaco di scongiurare un inciucio che gli sbarrerebbe la strada (con Prodi il centrodestra non darebbe il suo ok a un governo a guida Pd neanche sotto tortura); e che allo stesso tempo permetterebbe a Renzi di andare alle elezioni molto presto e con un presidente capace di esorcizzare in campagna elettorale il rischio che il centrosinistra possa essere accusato di aver fatto intrallazzi con il Caimano.

Quella storia del segretario al Colle
Su una linea simile a quella di Renzi ci sono poi i Giovani turchi di Matteo Orfini, di Andrea Orlando e di Stefano Fassina, anche se in realtà bisogna dire che la gauche Pd sembra essere la corrente che più sta soffrendo questa fase post elettorale. Nonostante i turchi scommettano ancora sul governo Bersani e preferiscano un Giorgio Napolitano a un Romano Prodi (ieri Orfini lo ha detto esplicitamente), proprio come i renziani sono gli unici che in questi giorni, e a più riprese, hanno evocato con convinzione lo scenario delle elezioni subito in caso di flop di Bersani.

La ragione non è casuale ed è legata a una sorta di "patto generazionale" che gli Orfini e gli Orlando hanno stretto con i Rottamatori (chiedete per credere a Graziano Delrio) in vista delle elezioni. Senso del patto: se Bersani fallisce lavoriamo di sponda per andare al voto, spazziamo via i vecchi colonnelli del Pd, Bersani compreso, e dopo di che conquistiamo insieme il centrosinistra del futuro.

All'interno di questa pentola a pressione un ruolo importante lo giocheranno nei prossimi giorni, e forse prima di tutti gli altri, vecchi campioni del gruppo dirigente diessino come Massimo D'Alema, Piero Fassino, Anna Finocchiaro e Luciano Violante.

Il gruppo ex Ds, come è noto, mostra da tempo segnali di insofferenza rispetto alla linea "testarda" del segretario e nelle ultime settimane ha criticato in varie forme le scelte compiute in questi giorni da Bersani e dal suo ristretto cerchio emiliano (da Migliavacca ad Errani), fino ad arrivare all'esplicita contestazione dell'idea di voler dar vita a un fragile governo di minoranza.

Risultato? Sia D'Alema, sia Fassino, sia Finocchiaro, sia Violante (tutti in qualche modo, tranne Fassino, coinvolti nella corsa al dopo Napolitano) si sono convinti che nelle prossime ore sia corretto prendere in considerazione l'ipotesi fatta circolare per il Quirinale dagli ambienti berlusconiani.

Un'idea che ieri sui giornali è stata presentata con la formula "Quirinale per Bersani" (idea che gira nel Pd da tempo, e persino l'Unità due settimane fa ha inserito tra i papabili per il Colle lo stesso segretario). Ma che in realtà è stata descritta ai vecchi diessini Pd anche in una versione diversa, che non necessariamente contempla il volto di Bersani.

Ce la sintetizza così un esponente del Pd di area lettiana: "Il Pdl voterebbe un ex Ds al posto di Napolitano, non per forza Pier Luigi, a condizione che poi le larghe intese vengano fatte al governo. Lo schema è complicato ma esiste. E se gli ex diessini dovessero capire che questo è l'unico modo per far partire un governo vedrete che una forzatura la faranno; eccome se la faranno".

Dunque, questi gli scenari. E anche se oggi è impossibile azzardare i nomi dei veri papabili in pista per il Quirinale, per capire dove andrà a finire il Pd non si potrà prescindere da tutte queste microesplosioni che hanno rivoluzionato la geografia interna al Partito democratico. E vedremo nelle prossime ore se Bersani riuscirà davvero a evitare che la sua pentola a pressione si trasformi improvvisamente in una bomba per il Pd.

 

 

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