PD-PRESIDENZIALISMO, FINE DI UN TABÙ – PRODI LO VUOLE PER PUNTARE AL COLLE (E VENDICARSI DEI TRADITORI), LETTA PER FAR DURARE IL SUO GOVERNO…

Fabio Martini per "La Stampa"

Durava da un ventennio, sembrava marmoreo e invece il tabù della sinistra verso il presidenzialismo è caduto in modo repentino, nel giro di pochi giorni. Per effetto di tre mosse che potrebbero cambiare la storia politica, non solo della sinistra. Per primo è uscito allo scoperto Romano Prodi che, in un editoriale scritto quattro giorni fa per «Il Messaggero», non soltanto si è pronunciato a favore del sistema semipresidenziale alla francese - e non è poco - ma ha spiegato che quel modello «non solo non mi fa paura ma penso che sia l'unica via di salvezza per un Paese che, come l'Italia, ha bisogno di prendere le decisioni necessarie per farla uscire dalla ormai troppo lunga paralisi».

Romano Prodi non è soltanto l'unica personalità del centrosinistra che abbia battuto Silvio Berlusconi, ma da capofila del «dossettismo» in politica con la sua presa di posizione chiude la lunga stagione di ostracismo del cattolicesimo democratico al sistema presidenziale. La seconda mossa è più recente e l'ha fatta il presidente del Consiglio Enrico Letta che due giorni fa ha detto in modo felpato che servono «nuove regole per l'elezione del Capo dello Stato».

Sia pure in codice, anche Letta apre al presidenzialismo, perché sa che il suo governo - che in campo economico avrà le sue grane - dura se fa le riforme istituzionali e con la sua allusione apre la strada ad uno scambio Pd-Pdl: semipresidenzialismo al Pdl in cambio del sistema elettorale a doppio turno, che invece sta a cuore al Pd. E quanto al Partito democratico, anche lì sta maturando una svolta: una settimana fa il pur prudente Guglielmo Epifani ha fatto una prima apertura, cogliendo un umore prevalente nella maggioranza Bersani-Letta-Franceschini che lo sostiene: al Pd sanno che se cade il governo, esplode il partito.

Questa congiunzione astrale, se non muterà nelle prossime settimane, potrebbe trasformare il presidenzialismo all'italiana in uno degli argomenti caldi del congresso Pd. Lo suggeriscono i tempi: entro novembre dovrebbe essere approvata la legge costituzionale di procedura e da quel momento la discussione sulle riforme può entrare dalla fase teorica a quella operativa. Con quante probabilità di andare in porto? «Difficile fare previsioni - dice il professor Stefano Ceccanti, da anni uno dei protagonisti del dibattito costituzionale a sinistra anche perchè in Italia ostacolare le riforme è sempre più facile che farle, ma è pur vero che l'unica riforma che si può fare è proprio quella, l'unica sul quale si può trovare un terreno comune tra i due partiti principali».

La sorpresa è che, a sinistra, una spinta significativa verso un sistema presidenziale viene da Romano Prodi. Un messaggio, il suo, che ha un doppio significato. Anzitutto per la presa di posizione in sé molto innovativa rispetto ad una tradizione politica e culturale, tanto è vero che ha finito per spiazzare chi in questi anni ha difeso gli attuali assetti costituzionali come Rosy Bindi, che ha detto: «Prodi sbaglia».

Ma nella mossa del Professore c'è qualcosa in più. Prodi c'è, è ancora in campo e, sia pure tra mille subordinate, in cuor suo non esclude un'ipotesi clamorosa: non soltanto di intestarsi la battaglia per il cambio del sistema, ma un domani anche di candidarsi ad una Presidenza così rinnovata. Certo, è tutto così ipotetico che un uomo pragmatico come Prodi mai si lascerà sfuggire una intenzione così formata. Eppure chi lo conosce, assicura che il gusto delle sfide non lo ha mai abbandonato, neppure nei giorni amari di quella sovraesposizione per il Quirinale, voluta dai vertici del Pd, ma che lui non aveva cercato.

Naturalmente la strada verso il «matrimonio» tra Pd e semipresidenzialismo è tutta in salita. Perché, anche stavolta, appare sì legata al merito della questione, ma molto connessa alle tattiche interne al partito e ai rapporti tra partito e governo. Eppure i segnali di disgelo vengono proprio dalle due anime, quella ex comunista e quella cattolico-democratica, che per decenni avevano fatto muro.

Esemplare in questo senso l'atteggiamento di Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato che dieci giorni aveva fatto da battistrada, sostenendo, in una intervista a «La Stampa»: «Non dobbiamo avere nessun tabù, anche sul semipresidenzialismo si può ragionare senza rifiutare di prendere in considerazione ipotesi che possano essere utili alla stabilità». Atteggiamento condiviso da un altro esponente «storicamente» di area dalemiana come Nicola Latorre: «Il sistema più efficace e rodato è il semipresidenzialismo alla francese». Con una condizione, quella sì invalicabile per la sinistra: «Servono bilanciamenti: una legge sul conflitto di interessi».

 

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