PERNA SQUAGLIA PIERO GRASSO: “E’ UN DOPPIO PROVINCIALE, COME MAGISTRATO E COME SICILIANO”

Giancarlo Perna per "il Giornale"

È dall'infausto cilindro di Pier Luigi Bersani che è uscita la presidenza del Senato di Pietro Grasso. Lo stesso cappello da cui balzò Laura Boldrini, l'omologa di Montecitorio. Scelte che l'ex segretario del Pd, perduto il senno con la delusione elettorale di febbraio, ha fatto in odio al Pdl.

Non volendo il Cav tra i piedi, il geniale piacentino ha improvvisato candidature a uso esclusivo di sinistra e grillini. Il risultato è che guidano Camera e Senato due pesci fuor d'acqua che rappresentano poco e male la nazione. 
Sono le storie personali a renderli avulsi. Boldrini è un'ex funzionaria Onu che, nella sua visione globale, considera l'Italia una semplice piattaforma adagiata sul Mediterraneo per favorire gli attracchi dal terzo mondo.

Grasso, all'opposto, è un doppio provinciale, come magistrato e come siciliano. Poiché, per lui, la lotta alla mafia è il massimo problema d'Italia - e anche del mondo, se potessimo leggergli nel cervello - è pronto a relegare in soffitta ogni altro bisogno della settima Potenza economica mondiale. Per intenderci: come i suoi colleghi, magistrati e siciliani, è pronto a inchiodare la politica su una questione come la cosiddetta trattativa Stato-mafia, che è probabilmente una bidonata, sicuramente la miccia per una guerra tra bande o, se qualcosa di vero c'è, un agreement di necessità - com'è avvenuto decine di volte - per stornare guai peggiori.

Con questo, entriamo nel vivo di Pietro Grasso, oggetto di questo articolo. Quando nel 2012, si pose il problema delle intercettazioni di Napolitano proprio sulla presunta trattativa, Grasso era ancora Procuratore nazionale antimafia. Con discrezione, il Quirinale lo pregò di intervenire presso la Procura di Palermo, responsabile dell'intercettazione, per fare cessare la scandalosa ingerenza. Ma Grasso, che non voleva grane, non si mosse. Anzi, in un'intervista, si vantò dell'immobilismo, presentandolo come lodevole neutralità.

Il Colle se lo legò al dito, tanto più che di lì a poco la Consulta, cui Napolitano si era rivolto, gli dette piena ragione ordinando ai palermitani di distruggere le registrazioni che riguardavano il presidente. Per inciso, appena appresa la decisione, Grasso esclamò entusiasta: «È stata fatta chiarezza!». Lo disse con il tono trionfale di chi ha vinto una battaglia personale, mentre, in realtà, aveva rifiutato di combatterla.

Un opportunismo che ritroveremo.
Diventato parlamentare del Pd pochi mesi dopo questi avvenimenti e addirittura presidente del Senato, l'ex magistrato ha fatto piroette per ottenere il perdono di Napolitano. Si è fatto ritrarre in tutte le salse accanto al capo dello Stato - sul Colle, in ricevimenti, sfilate, funerali - per mostrare al mondo che non c'erano più ombre tra loro. È stato così che abbiamo scoperto come Pietro inalberi un sorriso fisso del tutto slegato dalle circostanze allegre o tristi.

Si discute se si tratti di un tic o del vezzo di un bell'uomo che si ispira - per chi ancora lo ricorda - a Rossano Brazzi. Questo desiderio cieco di ingraziarsi Napolitano ha raggiunto vette semi eversive. Due episodi, entrambi dello scorso luglio. Durante il dibattito sulla mozione di sfiducia al ministro dell'Interno, Alfano, un senatore grillino alluse a non so quale «colpa» di Napolitano. Appena sentito il nome, Grasso, che dirigeva i lavori, saltò su: «Non sono ammessi riferimenti al capo dello Stato, lasciamolo fuori da quest'aula...». L'altro tentò di insistere ma Pietro lo zittì a brutto muso: «Lei non può citarlo».

Passi la piaggeria, ma qui siamo al sopruso. Non esiste un cenno nel regolamento del Senato (né della Camera) che vieti di chiamare in causa il capo dello Stato. Sarebbe contrario alla tradizione parlamentare. Si può dunque ipotizzare che Grasso, per eccesso di zelo, sia ricorso, con riflesso pavloviano, alla discrezionalità (rectius: arbitrio) cui sono avvezzi i magistrati.

L'altra brutta pagina è quella in cui in un'intervista a la Repubblica, ha detto di essere «certo» che, in caso di bizze del Pdl, Napolitano avrebbe cercato nuove coalizioni per tenere in piedi il governo. Due magagne in una frase: la prima è che, non autorizzato, si è finto portavoce del Quirinale; la seconda è che, invece di essere arbitro e neutrale, ha appoggiato una soluzione politica anti destra e filogrillina. D'altra parte, che Pietro sia inadatto traspare dalla sua biografia di uomo digiuno della politica, tendente a barcamenarsi. Sessantasette anni, nato a Licata ma palermitano d'adozione, il magistrato Grasso si fece un nome come estensore delle settemila pagine di sentenza del maxiprocesso di Cosa Nostra (1985).

Amico di Giovanni Falcone, lo seguì a Roma quando - va detto a suo merito - tanti gli avevano voltato le spalle, per un incarico al ministero, con Claudio Martelli Guardasigilli. Fu, dal 1999 al 2005, procuratore capo di Palermo, succedendo a Gian Carlo Caselli. Nonostante il savoir faire, si attirò nell'ufficio le antipatie dei nostalgici «caselliani», con in testa - altra sua medaglia - Antonio Ingroia e i suoi amici giornalisti tanto che quelli del Fatto gli danno tuttora addosso.

Nel 2006, Grasso divenne Superprocuratore antimafia grazie al Pdl. In lizza con lui, c'era il solito Caselli. Costui era favorito ma, notoriamente comunista, dava l'orticaria alla destra al governo. Così, fu fatta una leggina che escludeva Caselli per ragioni di età e promuoveva automaticamente Pietro. A cose fatte, la Consulta dichiarò incostituzionale l'inghippo. Grasso, che ormai aveva intascato la nomina, commentò: «Sono contento. Era una legge che non ho condiviso».

Non la condivideva ma ne aveva approfittato. Non è forse lo stesso Pietro che, per la sentenza che condanna l'intercettazione di Napolitano, gioisce come se avesse vinto la battaglia che invece non volle combattere? Grasso è così: un passo avanti, uno indietro, ma con l'occhio alla carriera. Un ultimo esempio, e concludo, del come si è barcamenato tra sinistra e destra.

Nella ricorrenza 2010 della strage di Via dei Georgofili a Firenze (1994) dichiarò ai parenti delle vittime che la mafia aveva messo le bombe per «agevolare l'avvento di nuove realtà politiche che potessero esaudire le sue richieste».

Allusione scopertissima a Forza Italia e Berlusconi. Scoppiata la polemica disse di essere stato frainteso. In realtà, aveva parlato a vanvera. Tanto che, nel 2012, il Cav mafioso diventò eroe antimafia. «Gli darei un premio speciale. Con le sue leggi abbiamo sequestrato alla mafia beni per quaranta miliardi», proclamò il Superprocuratore che di lì a poco, con la casualità di un terno al lotto, è arrivato alla testa del Senato. 
Un colpo al cerchio, uno alla botte. È il modo di Grasso di attraversare la vita.

 

PIERO GRASSO SENATO PIERO GRASSO IN AULA AL SENATO GIANCARLO CASELLI E PIERO GRASSOPIERO GRASSO PROCURATORE ANTIMAFIA PIERO GRASSO E BOCCASSINI aaa bf c e afb dbd a Piero Grasso e Angelino Alfano

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