LE PRIVATIZZAZIONI DEL PIFFERO - CEDERE QUOTE DI ENI, TERNA, ENEL ETC. ALLA CASSA DEPOSITI NON VUOL DIRE PRIVATIZZARE - LA VENDITA DELLA SIA DELLE BANCHE ALLA CDP

1 - PRIVATIZZARE UN PO' PER FINTA
Francesco Giavazzi per il "Corriere della Sera"

Incalzato dalle critiche di Bruxelles alla legge di Stabilità, il presidente del Consiglio ha annunciato che nei prossimi giorni presenterà un programma di privatizzazioni e indicherà gli obiettivi per la spending review .

Sulle cessioni di aziende pubbliche vorremmo chiedere un impegno. Che non si chiami «privatizzazione» il trasferimento della proprietà di un'impresa alla Cassa Depositi e Prestiti, una società della quale lo Stato possiede l'80% del capitale. Così è accaduto per le quote di Eni, Enel, Terna, Snam, Sace, Simest, Fintecna e, ultima arrivata, Ansaldo Energia.

Sarebbe bene fermarsi. Non è con gli artifici contabili (anche se formalmente consentiti dalle regole europee) che si diminuisce l'indebitamento e si aiuta la crescita. Se il governo vuole ridurre l'onere del debito pubblico attingendo al risparmio postale (una fonte di finanziamento relativamente poco costosa che oggi affluisce alla Cassa) lo destini direttamente alla Tesoreria dello Stato, senza farlo transitare per la Cassa, spesso pagando dazio.

Non è solo una questione contabile. Trasferire la proprietà di un'azienda pubblica dallo Stato alla Cassa Depositi e Prestiti è un modo per non privatizzarla mai. Lo Stato è oppresso da una montagna di debiti e ha un forte incentivo a vendere. La Cassa al contrario debiti non ne ha e quindi non ha alcun motivo per cedere imprese o partecipazioni. Anzi, ha un incentivo a usare i finanziamenti a buon mercato, che gli derivano dal monopolio della raccolta postale, per costruire un impero industrial-finanziario, come sta facendo da alcuni anni.

La Cassa inoltre è posseduta per il 18% dalle fondazioni bancarie. Trasferendo un'azienda dallo Stato alla Cassa si dà a quegli enti un diritto di veto o comunque di interferenza nelle privatizzazioni. Non si vede perché. Ci sono migliaia di aziende pubbliche di proprietà di Regioni, Comuni e Province. Alberto Orioli, sul Sole 24 Ore del 14 ottobre scorso, ha stimato che siano quasi ottomila, con un numero di consiglieri di amministrazione che supera i 19.000. La legge di Stabilità si limita a porre dei paletti alle loro spese. Servirà a poco.

Finché quelle aziende rimarranno pubbliche i loro costi ricadranno, almeno in parte, sulle nostre tasse. L'unica soluzione è venderle. Perché la raccolta dei rifiuti deve essere affidata a un'impresa del Comune, con il risultato che i suoi addetti sono dipendenti pubblici, quindi di fatto inamovibili?

Invece di artifici contabili vorremmo che il presidente del Consiglio ci spiegasse come pensa di ridurre quelle ottomila aziende a poche decine. Così fra l'altro le indurrà ad aggregarsi: che senso ha che Vicenza abbia una sua azienda di luce, acqua e gas, diversa da quelle di Padova e Verona?

Privatizzazioni e spending review sono strettamente collegate. Perché non si può ridurre significativamente la spesa se prima non si riduce lo spazio che lo Stato occupa nell'economia. A spazio dato si può tagliare ai margini, ma il risultato sarà modesto.
Tanto più se, come riporta Fabio Tamburini (a seguire), si va nella direzione opposta. Il Fondo strategico (controllato dalla Cassa Depositi e Prestiti), aiutato da un altro fondo (F2i) starebbe comprando da quattro banche la Sia, la Società interbancaria per l'automazione, valutando l'azienda circa 700 milioni. Insomma, lo Stato è oppresso dai debiti, ma la mano pubblica continua a essere leggera e disinvolta.


2 - LA SIA DELLE BANCHE VA AL FONDO STRATEGICO
Fabio Tamburini per il "Corriere della Sera"

Ancora pochi giorni e le polemiche sugli investimenti del Fondo strategico italiano troveranno nuova benzina. E' alle ultime battute, infatti, l'acquisto della Sia, la Società interbancaria per l'automazione, anche se la nuova compagine azionaria risulterà diversa dalle previsioni perché l'opportunità di vendere verrà data a tutti i soci attuali mentre lo schema iniziale dell'operazione prevedeva che passasse di mano soltanto il pacchetto di titoli controllato dal patto di sindacato, cioè il 65% che fa capo a Unicredit, Intesa Sanpaolo, Bnl Paribas, Monte dei Paschi di Siena. La chiusura delle trattative è prevista in settimana o, al più tardi, all'inizio della prossima.

Ma il controllo della Sia, che è stata valutata circa 700 milioni, è davvero strategico per il Paese? La risposta, come spesso accade, è opposta secondo chi la dà. La Sia gestisce rete e servizi telematici relativi alle transazioni bancarie. E Banca d'Italia, in particolare, ha sempre dato segnali inequivocabili che si tratta di attività da controllare strettamente.

Le polemiche sono alimentate dal fatto che il Fondo strategico, partecipato dalla Cassa depositi e prestiti con l'80% del capitale e dalla stessa Banca d'Italia con il 20%, è stato scelto di fatto come interlocutore unico. Ciò ha spiazzato gruppi multinazionali interessati all'acquisto, come per esempio la francese Atos, ma ha reso impraticabili anche progetti ben diversi.

Basta ricordarne due: l'interesse dell'Istituto centrale delle banche popolari e, in particolare, la possibile quotazione in Borsa della Sia, che avrebbe permesso l'uscita degli azionisti venditori senza impegnare le risorse (preziose per il Paese) del Fondo strategico. E' agli atti, in proposito, la lettera di una importante banca d'affari internazionale che nei mesi scorsi si è candidata all'operazione, garantendo una valutazione della Sia certamente non inferiore a quella che è alla base dell'accordo raggiunto e in via di ratifica.

Il nuovo schema prevede che tutti gli azionisti della Sia abbiano l'opportunità di vendere le partecipazioni, grazie all'arrivo di altri soci: il fondo F2i guidato dall'amministratore delegato Vito Gamberale e i due fondi di Orizzonte sgr, controllata a sua volta da Tecno holding, la finanziaria delle camere di commercio.

F2i finirà per rilevare una quota molto inferiore alle previsioni per problemi di parti correlate, in quanto Unicredit e Intesa sono azioniste sia del fondo di Gamberale sia della Sia. Potrebbe avere un ruolo maggiore, invece, la galassia Tecno holding, probabilmente tramite la partecipata Tecnoinvestimenti.

 

 

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